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Figlio di Riina al microfono: sconcerto e polemiche

La recente pubblicazione di un’intervista a Giuseppe Salvatore Riina, figlio del capomafia Totò Riina, all’interno del podcast “Lo Sperone”, ha generato un’ondata di sconcerto e indignazione, aprendo un acceso dibattito sul limite tra libertà di espressione e rispetto per le vittime e la memoria storica.

L’intervista, durata un’ora e caratterizzata da un’assenza quasi totale di confronto critico da parte dell’intervistatore, ha offerto a Riina jr.

una piattaforma per esporre la propria visione, reinterpretando eventi cruciali come le stragi del ’92 e tentativamente assolvendo la figura paterna.

La decisione di mantenere online la puntata, difesa dal conduttore del podcast, Gioacchino Gargano, ha suscitato reazioni contrastanti.

Gargano, respingendo le richieste di rimozione, ha denunciato una sorta di ipocrisia nel tentativo di censurare voci dissonanti, accusando chi invoca la rimozione come complice di un sistema di propaganda mascherata.
Pur affermando un profondo ripugno per la mafia, l’intervistatore si è mostrato riluttante a contestare frontalmente le affermazioni del figlio di Riina, riconoscendone la condanna per associazione mafiosa e sottolineando la necessità di combattere la criminalità organizzata, richiamandosi all’esempio dei giudici Falcone e Borsellino e al pensiero di Peppino Impastato.

L’intervista ha provocato forti critiche da parte di esponenti politici di spicco, tra cui il Presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, e la Presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo.

Schifani ha stigmatizzato le dichiarazioni di Riina come offensive nei confronti della memoria di Falcone e delle vittime, ribadendo con fermezza che Falcone è stato ucciso perché simbolo della lotta alla mafia e condannando ogni tentativo di revisionismo storico.

Colosimo, a sua volta, ha definito le affermazioni di Riina come “feroci e crudeli”, denunciando la ricerca di visibilità attraverso una “pseudo morale mafiosa” che pretende di lezioni di etica sociale, ignorando la storia criminale della famiglia.
Il caso solleva interrogativi complessi sul ruolo dei media e sui confini della libertà di parola.

Se da un lato è imprescindibile garantire la possibilità di esprimere opinioni, anche quelle più discutibili, dall’altro è doveroso proteggere la dignità delle vittime, preservare la verità storica e contrastare la diffusione di narrazioni che possano legittimare la criminalità organizzata.
L’episodio evidenzia, inoltre, la persistente necessità di un’attenta riflessione sul rapporto tra memoria, giustizia e responsabilità civile, affinché le ferite del passato non si richiudano in nuove forme di negazione e rivincita.

La sfida è quella di costruire una cultura della legalità fondata sulla conoscenza, sulla consapevolezza e sulla ferma condanna di ogni forma di sopruso e ingiustizia.

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