“Figlio di Giano” emerge come un’opera cinematografica di rara suggestione, un documentario di creazione che trascende la mera cronaca per abbracciare una riflessione più ampia sull’identità, il rito e la memoria collettiva di Roma.
Il film di Luigi Grispello non si limita a raccontare la storia del “Tuffatore di Castel Sant’Angelo”, ma ne fa un pretesto per indagare l’anima della città eterna, tessendo una narrazione stratificata che mescola sapientemente immagini d’archivio, testimonianze dirette e un racconto evocativo.
Al centro del racconto troviamo Marco Fois, un uomo ordinario, quasi anonimo, che assume l’eredità di un rito secolare, diventando il nuovo “Mr.
Okey”, il custode di un’antica tradizione.
La sua figura, incarnazione di una quotidianità senza fronzoli, si staglia contro il background monumentale di Roma, diventando un simbolo di continuità e resilienza.
La voce narrante di Giorgio Tirabassi, che interpreta Giano, divinità bifronte protettrice della città e personificazione del Tevere, introduce una dimensione mitologica, creando un ponte tra il presente e un passato leggendario.
Giano, figura ambivalente, testimone silenzioso dei mutamenti storici, accompagna lo spettatore in un viaggio nell’identità romana, rivelando come un rito apparentemente folcloristico possa racchiudere in sé una profonda connessione con le radici culturali.
Il film dipinge un affresco storico che si estende dalle macerie del dopoguerra all’attualità, mettendo in luce l’evoluzione del ruolo del tuffatore.
Dalla figura eccentrica e spettacolare di Rick De Sonay, il primo “Mr.
Okey”, al fisico imponente e atletico di Maurizio Palmulli, fino all’ordinario Marco Fois, si rivela un cambiamento nel significato del rito: da performance acrobatica a gesto di continuità e appartenenza.
La scelta di Grispello di seguire Marco Fois nella sua vita quotidiana – tra la cucina mobile del suo camper, gli allenamenti solitari e gli amici di sempre – umanizza la figura del tuffatore, elevandola da icona a uomo con le sue fragilità e le sue passioni.
La ricchezza visiva del film è data dalla magistrale direzione della fotografia di Bernardo Massaccesi, che alterna sapientemente bianco e nero e colore, creando un’atmosfera onirica e malinconica.
Il montaggio, curato da Luca Armocida, è altrettanto efficace nel mescolare i filmati d’epoca con le riprese attuali, creando un ritmo incalzante che tiene lo spettatore incollato allo schermo.
La colonna sonora, evocativa e nostalgica, arricchisce ulteriormente l’esperienza cinematografica.
“Figlio di Giano” non è semplicemente un documentario su un tuffatore; è un omaggio alla città di Roma, alla sua storia, alla sua gente, ai suoi riti.
È un film che invita alla riflessione sulla natura del tempo, della memoria, dell’identità e sulla capacità dell’uomo di trovare significato anche nei gesti più semplici e apparentemente banali.
I titoli di coda, densi di immagini evocative, sigillano l’esperienza cinematografica con una potenza emotiva inaspettata, lasciando lo spettatore con una sensazione di profonda malinconia e, al contempo, di rinnovato senso di appartenenza.





