“C’è di più, molto di più, dietro l’apparente semplicità”.
Milena Canonero, icona indiscussa del costume cinematografico, riflette sul suo percorso, premiata con quattro Oscar, durante un incontro allo Spazio Cinema del Festival di Locarno, dove ha ricevuto il prestigioso Vision Award di Ticinomoda.
La sua carriera, tuttavia, non è stata dettata da una vocazione precoce.
“Tutti noi, costumisti di valore, percorriamo strade simili”, ammette Canonero, sottolineando come il suo lavoro sia profondamente radicato nell’ammirazione e nell’ispirazione.
“Ci sono maestri, contemporanei e storici, che continuano a illuminare il nostro cammino.
Il cinema è, prima di tutto, una sinergia di talenti, una collaborazione costante.
” L’ispirazione, per Canonero, è un nutrimento imprescindibile.
Ne è esempio magistrale il suo lavoro per “Il Grand Budapest Hotel”, dove i costumi di Tilda Swinton attingono apertamente all’estetica di Gustav Klimt, un omaggio condiviso anche con il regista.
“Non è un segreto: registi e costumisti si documentano e si confrontano.
Spesso, il regista stesso porta con sé un immaginario visivo ricco di riferimenti”.
Il talento di Canonero, tuttavia, non è solo frutto di ispirazione, ma anche di un’acuta sensibilità e di una profonda conoscenza artigianale, affinata da studi, seppur mai portati a termine.
Il suo debutto nel mondo del cinema fu con “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrick, un’esperienza che le instillò la passione per la settima arte, portandola, per un attimo, a sognare la regia.
Kubrick, noto per la sua meticolosità, la volle con sé anche per “Barry Lyndon”, un progetto storico che la mise a dura prova.
“La mole di lavoro mi intimoriva”, confessa Canonero.
Inizialmente, accettò di essere l’assistente speciale del regista, ma fu poi lei a essere scelta come costumista, una svolta che le valse il suo primo Oscar.
“Creammo un vero e proprio laboratorio, qualcosa di allora inusuale”, ricorda con nostalgia.
“Occupammo un hangar in un aeroporto privato, una sorta di fabbrica temporanea dove coniugavamo creatività e artigianalità, affidando alcune lavorazioni a una sarta specializzata.
“La sua esperienza con i grandi registi ha plasmato il suo approccio al lavoro.
Con Wes Anderson, si instaura una vera e propria simbiosi creativa, un dialogo costante sull’immagine e sulla recitazione.
Al contrario, Kubrick preferiva un approccio più distaccato, lasciando ampio spazio all’interpretazione.
Un aneddoto rivela il suo profondo legame con Anderson: la scelta del colore viola per le uniformi de “Il Grand Budapest Hotel”, un dettaglio apparentemente secondario che, per il regista, rappresentò una rivelazione estetica.
“Non sapevo che l’hotel sarebbe stato così rosa,” ammette, sottolineando come la visione artistica del regista sia spesso inaspettata e trasformativa.
Il rapporto con Francis Ford Coppola, iniziato con “Cotton Club”, si è rivelato altrettanto intenso e stimolante.
“Megalopolis”, un progetto giovanile che Coppola ha continuato a rivedere per decenni, è un esempio lampante del suo incessante desiderio di perfezione.
“È un’esperienza da vivere con una mente aperta, non come un prodotto finito, ma come un processo in continua evoluzione,” conclude Canonero, invitando il pubblico a cogliere la profondità e la complessità di un’opera ancora in divenire.