Salvatore Fiume: un genio inafferrabile, un artista che ha tessuto un ponte inatteso tra l’eco del Rinascimento e la malinconia metafisica del Novecento.
La sua figura, emerge vivida nel documentario “Salvatore Fiume.
Il mestiere della pittura”, diretto da Pasquale D’Aiello e trasmesso su Rai Storia, non come una semplice biografia, ma come un viaggio emozionale nella genesi di un linguaggio pittorico unico.
Il racconto si apre con l’eco di un’infanzia trascorsa a Fiumefreddo Bruzio, un borgo calabrese dove, da bambino, Marco Dalmazio Tarantino, figlio del sindaco, fu rapito dalla magia delle prime pennellate dell’artista.
Questo evento, impresso nella memoria collettiva, segnò l’inizio di una carriera straordinaria, segnata da un’incessante ricerca di sintesi tra tradizione e innovazione.
Il percorso di Fiume è un mosaico di esperienze: da giovane, affina il suo sguardo in Sicilia, per poi approdare a Milano, dove stringe amicizia con figure chiave come Buzzati e Quasimodo.
La guerra lo segna profondamente, ma l’arte si rivela un balsamo, un mezzo per dare forma all’angoscia e alla speranza.
La sua abilità cattura l’attenzione di Alfred Barr, il leggendario direttore del MoMA, un riconoscimento che lo proietta nell’olimpo dell’arte contemporanea.
La sua capacità di fondere influenze apparentemente distanti è il fulcro della sua originalità.
La “Città di statue”, la sua prima personale milanese del 1949, è un manifesto di questo approccio: un dialogo serrato tra la pittura metafisica, con la sua atmosfera sospesa e i suoi simboli enigmatici, e la rigorosa geometria del Rinascimento.
Questo connubio si sublima nelle “Storie dell’Umbria”, commissionate da Bruno Buitoni, un mecenate illuminato che riconosce la grandezza dell’artista.
Cristina Galassi, docente all’Università per Stranieri di Perugia, sottolinea come Fiume, pur attingendo alla lezione dei maestri classici, sia sempre profondamente radicato nel suo tempo, capace di creare un’armonia inaspettata tra epoche e stili.
Il documentario non trascura le esperienze meno note, come le scenografie per la Scala e l’amicizia con Maria Callas, che rivelano un uomo poliedrico, appassionato e curioso.
Elena Pontiggia, storica dell’arte, interpreta il passato artistico di Fiume non come un ritorno al passato, ma come una fonte inesauribile di ispirazione, un’opportunità per instaurare un “dialogo” con i grandi maestri, un omaggio alla bellezza e alla creatività.
Il viaggio di Fiume si estende anche oltre i confini europei, affascinato dall’Africa, dove ritrae Zauditu Negash, una modella etiope che diventerà la sua compagna di vita, immortalata nel celebre dipinto “Gioconda africana”, un simbolo di bellezza universale che trascende ogni confine culturale.
Il ricordo di Zauditu, ancora custode della sciarpa regalatagli dall’artista 51 anni prima, testimonia un amore profondo e duraturo, un legame che sopravvive alla separazione fisica, un’eco costante di una presenza che “cammina ancora insieme”.





