Un corteo di voci e storie si è levato nel cuore di Firenze, in via Tornabuoni, simbolo del lusso e del made in Italy, per contestare una norma insidiosa inserita nel decreto Pmi.
La protesta, animata da una centinaio di persone tra lavoratori tessili, attivisti sindacali di CGIL e UIL, si configura come un atto di resistenza contro un tentativo di depotenziamento della responsabilità delle aziende committenti in caso di irregolarità lavorative all’interno delle loro filiere produttive.
L’emendamento in questione, presentato come meccanismo di “certificazione di conformità” su base volontaria, solleva preoccupazioni profonde.
Secondo Bernardo Marasco, segretario della CGIL Firenze, si tratta di un’operazione volta a scaricare le aziende da ogni onere di controllo e responsabilità per quanto accade a valle, nelle complesse catene di fornitura che caratterizzano il settore moda.
Questa manovra legislativa rischia di normalizzare lo sfruttamento lavorativo, un problema endemico non solo in Toscana, ma in tutta Italia, e in un settore già gravato da una crisi strutturale.
Paolo Fantappiè, segretario generale UIL Toscana, condivide questa critica, invocando un’applicazione rigorosa del decreto legislativo 231 del 2001, che introduce la responsabilità amministrativa degli enti.
L’autocertificazione proposta, teme, potrebbe portare a un allentamento dei controlli, favorendo la perpetuazione di pratiche illegali che si annidano, in particolare, nella rete dei subappalti.
Questi ultimi sono spesso teatro di lavoro irregolare, applicazione di contratti “pirata”, lavoro nero e, in ultima analisi, sfruttamento.
Il presidio ha visto la partecipazione prevalente di lavoratori immigrati, provenienti da Pakistan, Bangladesh, Senegal e Cina, le cui storie personali incarnano la drammaticità del fenomeno.
Diemg racconta di contratti a breve termine, orari estenuanti – fino a 14 ore al giorno – e retribuzioni misere, a stento sufficienti a garantire una sopravvivenza precaria e l’invio di rimesse alle famiglie lontane, costringendolo a dormire in stazione.
Diop condivide un’esperienza simile, anni di lavoro nero in una ditta cinese, fino a trovare il coraggio di rivolgersi ai sindacati, intraprendere una nuova strada e dedicarsi all’assistenza dei propri colleghi, con una particolare attenzione verso i lavoratori stranieri.
La protesta si configura non solo come una contestazione di una specifica norma legislativa, ma come un appello a una maggiore consapevolezza e a una più efficace tutela dei diritti dei lavoratori, soprattutto in un settore come quello della moda, dove la globalizzazione e la competizione internazionale tendono a esacerbare le disparità e a favorire pratiche di sfruttamento.
L’auspicio è che la voce di questi lavoratori, amplificata dalla mobilitazione sindacale, possa contribuire a orientare le scelte politiche verso un modello di sviluppo più equo e sostenibile.








