La ricostruzione della responsabilità nel disastro del Ponte Morandi, culminato nel tragico crollo del 14 agosto 2018 che causò la perdita di 43 vite umane, si concentra sull’onere di verifica e garanzia che gravava sul progettista del retrofitting. Il Pubblico Ministero Walter Cotugno, nella sua requisitoria, ha delineato un quadro in cui l’omissione di una valutazione di sicurezza esaustiva costituisce una violazione di principi fondamentali, paragonando il caso a una sentenza della Corte di Cassazione che condannava un meccanico per non aver adeguatamente informato un cliente sulla pericolosità di un veicolo con i freni malfunzionanti.Questa analogia serve a illustrare il concetto di “posizione di garanzia”: colui che è incaricato di valutare le condizioni di un bene e, se necessario, intervenire per mitigarne i rischi, assume una responsabilità giuridica per il danno che potrebbe derivare dalla mancata o inadeguata esecuzione del proprio compito. Il pm ha focalizzato l’attenzione sulla figura di Emanuele De Angelis, all’epoca direttore tecnico di Spea, società incaricata della progettazione del retrofit. Il progetto, che prevedeva l’installazione di tiranti esterni, facilmente accessibili per ispezioni, rappresentava un tentativo di superare le criticità dei precedenti sistemi, caratterizzati da tiranti annegati nel calcestruzzo, come quelli che avevano mostrato segni di cedimento sulla pila 11 negli anni ’90.La scelta progettuale, apparentemente volta a migliorare la manutenibilità, non eliminò però le preoccupazioni strutturali latenti. Il nodo cruciale risiede nell’interpretazione dell’obbligo di verifica: non si trattava semplicemente di accertare la conformità del progetto agli standard del momento, ma di condurre un’analisi approfondita della stabilità dell’opera, integrando dati provenienti da diverse fonti, inclusi i risultati delle ispezioni e i modelli di comportamento strutturale.Un elemento aggiuntivo, di notevole rilevanza nell’ambito dell’indagine, è costituito dalle alterazioni informatiche riscontrate nel database della società Autostrade per l’Italia (Aspi). Il pm ha sostenuto che ogni manipolazione dei dati, accessibile a diversi livelli gerarchici, configurava un reato, minando la trasparenza e l’accuratezza delle informazioni utilizzate per la gestione e la manutenzione del ponte. Questa tesi, però, è stata veemente contestata dalle difese, che ne hanno messo in discussione la validità giuridica e la responsabilità diretta rispetto al crollo.In sintesi, il processo si configura come un’indagine complessa, che mira a ricostruire la catena di responsabilità che ha portato al disastro, valutando non solo le decisioni progettuali e gestionali, ma anche l’impatto delle manipolazioni informatiche sulla sicurezza dell’infrastruttura e la conseguente violazione del dovere di garanzia nei confronti della collettività. Il dibattimento si pone dunque l’obiettivo di stabilire se e in che misura le azioni o omissioni dei responsabili abbiano contribuito alla tragedia, in ossequio ai principi di giustizia e di prevenzione di futuri eventi simili.
Morandi: il pm accusa, la responsabilità del progettista al centro
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