“La vescova Mariann Budde esorta Trump alla compassione e al rispetto: un appello alla solidarietà”

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Durante la cerimonia di preghiera alla National Cathedral di Washington, la vescova episcopale Mariann Budde ha rivolto parole di “misericordia” al neopresidente americano Donald Trump, esortandolo a considerare con compassione i gay e gli immigrati clandestini, due gruppi spesso bersagliati dalle politiche del presidente. La prelata ha richiamato l’attenzione sulle diverse realtà presenti nella società americana, sottolineando la presenza di individui LGBTQ+ e immigrati che contribuiscono alla comunità in modi essenziali, nonostante le sfide legate al loro status legale.La Budde ha invitato Trump a guardare oltre le etichette e a riconoscere il valore delle persone che svolgono lavori umili ma fondamentali per il funzionamento della società, come coloro che operano nelle fattorie, nelle case private, negli uffici, negli impianti alimentari e sanitari. Ha sottolineato che la maggior parte degli immigrati non sono criminali e meritano rispetto e dignità. Le sue parole hanno evidenziato un appello alla comprensione e alla solidarietà verso coloro che potrebbero essere emarginati o discriminati.La reazione dei Trump durante il sermone è stata visibilmente contrariata: mentre Donald sembrava sbalordito alzando gli occhi al cielo, la figlia Tiffany mostrava qualche segno di divertimento. Melania, invece, trasmetteva chiaramente disapprovazione attraverso il suo sguardo deciso. Successivamente, Trump ha commentato freddamente che non riteneva il discorso della vescova una “buona predica”, dimostrando una netta divergenza di opinioni.Mariann Budde emerge come una figura influente all’interno della Chiesa episcopale americana per il suo costante impegno verso la giustizia sociale e i diritti umani. In passato aveva già criticato Trump per aver utilizzato la storica chiesa episcopale di St. John come sfondo per fini politici senza previa consultazione con la diocesi durante le proteste seguite alla morte dell’afroamericano George Floyd nel 2020. La sua voce si erge quindi come un richiamo all’etica e alla responsabilità nell’esercizio del potere politico e religioso.

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