Le belve e gli autoritratti di Luciano Ligabue in mostra al Forte di Bard

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La riscoperta di un uomo, un artista, considerato pazzo, e la ripartenza delle proposte culturali con una mostra che emoziona, lascia a bocca aperta, e che – ce lo auguriamo- non subirà più interruzioni grazie ai green pass che garantiscono una certa normalità allo svolgimento delle iniziative. E’ con l’antologica su Antonio Ligabue e il suo mondo che riparte, alla grande, la stagione delle proposte culturali del Forte di Bard, presentata giovedì 28 ottobre e che proseguirà fino al 9 gennaio. Ornella Badery, Presidente del Comitato che gestisce il Forte, non ha nascosto – giustamente – il trasporto, il pathos e l’emozione che hanno accompagnato i lavori preparatori di una mostra che, ne siamo sicuri, lascerà il segno. Una mostra curata con maestria da Sandro Parmiggiani, critico d’arte e perfetto conoscitore di Ligabue, resa possibile anche ai prestiti delle opere da parte di privati, gallerie d’arte e fondazioni bancarie e che punta i riflettori su un espressionista contemporaneo particolarmente discusso e recentemente tornato alla ribalta grazie al bellissimo film intrepretato da Elio Germano e diretto da Giorgio Diritti. La vita artistica del pittore impressionista viene raccontata attraverso le opere faunistiche, dove si evince una minuziosità dei particolari, soprattutto nei manti delle belve, quelle paesaggistiche, che mischiano elementi della bucolica e contadina bassa reggiana con caratteri tipici dei paesaggi svizzeri (Ligabue, benché di origini italiane, visse i primi anni della sua vita in Svizzera, prima di essere cacciato come cittadino “poco gradito” per rifugiarsi dalle parti di Reggio Emilia), i suoi autoritratti famosi perché “imbruttiti” nei caratteri, ma anche – vera scoperta per chi scrive – una ventina di opere scultoree in cui predomina, come nei dipinti, la ricerca forsennata dei particolari.

Una mostra che vale la pena visitare per riscoprire, anche attraverso gli articoli dei rotocalchi esposti, un personaggio che di fatto, almeno in base alle testimonianze dei medici, non era pazzo, ma dal carattere difficile, con un’esistenza drammaticamente impossibile e che ha trasposto nell’arte la sua solitudine e la sua voglia di riscatto nei confronti di una vita e di una società che l’ha rifiutato. Così, guardando i dipinti (una cinquantina in tutto tra cui molti dei suoi capolavori) veniamo gettati di colpo nella patria perduta di Ligabue, la Svizzera, attraverso le guglie dei castelli e dai tratti gotici, le montagne innevate, che fanno da cornice alla patria d’adozione, la pianura padana, dove ha trovato rifugio, anche se ai margini della società. Dipinti spesso ceduti in cambio di una minestra, atteggiamenti aggressivi (dietro ogni arbusto c’è un nemico), prevaricazione del forte sul debole, agguati dietro l’angolo (chiaramente raffigurati delle scene di belve inferocite che assaltano la preda), lotte all’ultimo sangue tra animali (che fanno capire la tragicità della vita, la lotta per la sopravvivenza) sono elementi che fanno dell’artista morto nel 1965, che sarebbe improprio e riduttivo considerare naif, qualcosa di unico e che grazie all’antologica proposta dal Forte di Bard avremo modo di riscoprire. Per innamorarcene, una volta per tutte.

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