Il Giubileo, con la sua intensità di fede e di esperienza comunitaria, non può sfumare in un ritorno passivo all’ordinario.
Non è lecito, ora che l’anno Santo giunge al termine, abbandonarsi a una rassegnazione sterile, lasciandosi sopraffare dalle ombre che gravano sul nostro mondo.
Le ferite dell’ingiustizia, la corrosione della corruzione, l’eco martellante delle guerre: questi non sono semplici dati statistici, ma ferite aperte nel tessuto dell’umanità.
L’arcivescovo Mario Delpini, riflettendo sull’esperienza del Giubileo, ha esortato a una conversione attiva, a un impegno concreto per sanare le fratture che dilanano la nostra società.
Il pellegrinaggio, metafora potente del cammino spirituale e terreno, ha offerto una visione privilegiata: l’incontro con la Chiesa che si rivela come luogo di accoglienza, un’oasi di perdono per le genti di ogni provenienza.
Un’esperienza che ha permesso di interiorizzare il valore intrinseco della propria esistenza, una vita intrinsecamente amata, purificata, investita di una vocazione: quella di irradiare amore, di estendere la capacità di perdono, contribuendo a edificare relazioni più armoniose, a rendere il nostro pianeta un luogo più vivibile, un’abitazione degna di essere custodita.
La remissione dei debiti, simbolo profondo del messaggio evangelico, non si esaurisce in un atto giuridico, ma si traduce in una disposizione interiore che ci spinge a lenire le sofferenze altrui, ad alleviare i fardelli che gravano sulle spalle dei più deboli.
Contraddittoriamente, il Giubileo ha offerto anche uno sguardo lucido sulle dinamiche di potere che guidano le azioni dei leader mondiali e delle istituzioni.
Abbiamo assistito a decisioni animate da logiche di dominio, da un’aggressività insensata che sfocia in conflitti bellici, alimentati da progetti di annientamento indiscriminato.
Abbiamo osservato l’accumulo sconsiderato di ricchezza da parte di pochi, mentre intere popolazioni sprofondano in una disperazione sempre più profonda.
Di fronte a questo quadro complesso e drammatico, l’invito a non deporre la speranza assume un significato ancora più urgente e profondo.
La speranza non è un sentimento effimero, confinato all’ambito di un anno giubilare, ma una virtù dinamica, un motore di cambiamento, una forza propulsiva che ci spinge ad agire, a lottare per un futuro più giusto e più umano.
Ora, pellegrini di speranza, conclude l’arcivescovo, non arrestatevi.
Proseguite il vostro cammino in questo mondo, così contorto e imperfetto.
Portate con voi il messaggio di una vita che è vocazione a riparare ciò che è rotto, a costruire ponti dove vi sono muri.
Annunciate una Chiesa che spalanca le sue porte alla miseria, che fa risplendere la misericordia di Dio, incarnata nel Signore Gesù.
La speranza non è un’attesa passiva, ma un impegno attivo per la trasformazione del mondo.




