La giustizia milanese ha emesso una sentenza di condanna a quattro anni di reclusione nei confronti di un medico di base, segnando un capitolo doloroso per la comunità e sollevando interrogativi cruciali sul rapporto tra potere professionale, fiducia e vulnerabilità.
Il processo, svoltosi dinanzi all’undicesima sezione penale del Tribunale di Milano, rappresenta una seconda iterazione giudiziaria per il professionista, a seguito di una precedente condanna per abusi sessuali su un altro giovane paziente.
La vicenda, ricostruita minuziosamente dalle indagini della polizia, coordinate dalla procuratrice Alessia Menegazzo e dall’aggiunto Letizia Mannella, rivela un quadro inquietante.
L’uomo, già gravato da una precedente condanna a tre anni di reclusione emessa dalla nona sezione penale milanese, aveva visto la misura interdittiva che gli impediva di esercitare la professione esaurirsi, permettendogli di tornare a operare.
Questo aspetto solleva importanti riflessioni sull’efficacia delle sanzioni e sulla necessità di un monitoraggio più rigoroso in casi di condanne per reati che coinvolgono la fiducia e la tutela dei soggetti più deboli.
Il 19 luglio 2024, il medico ha abusato di un giovane di 22 anni, che si era recato presso il centro medico dell’Asl di Corsico con la legittima necessità di ottenere un certificato medico.
Il documento, apparentemente una semplice formalità burocratica per permettere al giovane di praticare attività sportiva, si è trasformato in un momento di profondo trauma, un abuso di potere che ha violato la fiducia riposta nel professionista.
L’episodio non si limita a rappresentare un singolo atto criminale, ma incarna una problematica più ampia che riguarda la responsabilità dei professionisti sanitari e la protezione dei pazienti, in particolare quelli in una posizione di vulnerabilità.
Il rapporto medico-paziente si basa su un pilastro fondamentale: la fiducia.
Quando questa fiducia viene tradita, come nel caso in questione, le conseguenze sono devastanti, sia per la vittima che per l’intera professione medica.
La sentenza, seppur significativa, non può cancellare il dolore e il trauma subito dal giovane.
Richiede però una riflessione collettiva su come prevenire il ripetersi di simili episodi, rafforzando i sistemi di controllo, promuovendo una cultura della responsabilità e del rispetto nei confronti dei pazienti e garantendo un supporto psicologico adeguato alle vittime di abusi professionali.
Il caso sottolinea l’urgenza di un approccio multidisciplinare che coinvolga non solo il sistema giudiziario, ma anche le istituzioni sanitarie, le organizzazioni di tutela dei diritti dei pazienti e la società civile nel suo complesso.







