Il dibattito sulla classificazione dell’omosessualità come patologia ha segnato profondamente la storia del pensiero medico e sociale, lasciando tracce ancora oggi visibili nella percezione pubblica e nelle dinamiche politiche.
Non si tratta di un fenomeno confinato a un’epoca remota o a una specifica area geografica.
Fino a non molti decenni fa, l’omosessualità è stata inclusa in manuali diagnostici come la seconda edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-II) nel 1968, un’inclusione che rifletteva un clima culturale dominato da interpretazioni moralistiche e da una scarsa comprensione della complessità dell’identità umana.
Questa classificazione non era un’anomalia isolata; molte altre nazioni, sia in Europa che in altre parti del mondo, condividevano lo stesso approccio, spesso accompagnato da legislazioni discriminatorie e, in alcuni casi, da punizioni severe.
Le affermazioni recenti di un assessore comunale, espresse attraverso canali social in un contesto apparentemente distratto da un annuncio sportivo, riaprono una ferita che, pur apparentemente rimarginata, continua a pulsare.
La rivendicazione di un “libero pensiero” che si erge contro un presunto conformismo intellettuale rischia di confondere la libertà di espressione con la responsabilità istituzionale e la diffusione di informazioni obsolete e potenzialmente dannose.
L’argomentazione, sebbene mascherata da una presunta difesa dell’individualismo, ripropone l’errata convinzione che l’omosessualità sia una condizione patologica, alimentando pregiudizi e discriminazioni.
Parallelamente al dibattito sull’omosessualità, anche la transessualità ha subito un’evoluzione nella classificazione medica.
Fino a poco tempo fa, anch’essa era inclusa in manuali diagnostici come disturbo.
Tuttavia, l’evoluzione delle conoscenze scientifiche e la crescente consapevolezza delle esperienze vissute dalle persone transgender hanno portato a una revisione dei criteri diagnostici, sostituendo la classificazione di “disturbo” con quella di “incongruenza di genere.
” Questa modifica, pur rappresentando un progresso significativo, è stata interpretata da alcuni come un ulteriore passo verso l’adozione di un linguaggio “woke” e “gender”, evidenziando la persistenza di resistenze e di interpretazioni ideologiche.
È fondamentale che chi ricopre ruoli istituzionali agisca con rispetto per tutti i cittadini, promuovendo l’inclusione e contrastando la disinformazione.
La responsabilità di un rappresentante delle istituzioni non è quella di esprimere opinioni personali, ma quella di tutelare il benessere della comunità e di garantire l’accesso a informazioni corrette e basate su evidenze scientifiche.
La diffusione di affermazioni infondate e potenzialmente dannose, soprattutto in un tema così delicato come quello dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, non può essere tollerata e richiede un immediato e severo intervento da parte dell’amministrazione comunale, insieme a scuse pubbliche e provvedimenti concreti per promuovere un clima di rispetto e di tolleranza.
Il silenzio o l’acquiescenza di fronte a tali affermazioni rischiano di legittimare atteggiamenti discriminatori e di minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.