La tragedia di Pamela Genini, la giovane donna strappata alla vita a Milano con una furia di coltelli, si dipana ora attraverso le testimonianze che emergono dall’inchiesta condotta dalla Procura, segnando un percorso doloroso di ricostruzione e comprensione.
La madre, interrogata, ha espresso l’atroce sgomento di non aver percepito l’abisso che si celava dietro l’apparente relazione sentimentale, un vuoto colmato ora da un dolore incolmabile e dal rimpianto di non aver visto i segnali d’allarme.
Similmente, il fratello, nella sua deposizione, ha confermato l’ignoranza della famiglia riguardo alle dinamiche violente che hanno tormentato Pamela per circa un anno e mezzo.
Questo silenzio, questa impenetrabile barriera eretta tra la vittima e i suoi affetti più cari, è un elemento cruciale da analizzare.
Non si tratta di un semplice errore di percezione, ma di un complesso meccanismo che, troppo spesso, intrappola le donne vittime di violenza: la paura, la vergogna, la manipolazione psicologica perpetrata dall’aggressore, che isola la vittima, rendendo impossibile la richiesta di aiuto.
La menzione del dito rotto, curato in segreto dopo un episodio di violenza a Cervia, rappresenta un frammento di quel puzzle oscuro.
La madre, pur avendo notato la lesione, non era a conoscenza della sua origine: un dettaglio che sottolinea la capacità di Gianluca Soncin, il 52enne accusato dell’omicidio, di operare nell’ombra, proteggendo la sua immagine e perpetrando abusi senza lasciare tracce evidenti agli occhi di chi le voleva bene.
Le parole della madre, “Mi sembrava gentile, ma poi si è rivelato un mostro”, risuonano come un’amara constatazione della natura ingannevole della violenza, che si nasconde dietro una maschera di affabilità e persino di affetto.
L’accusa rivolta agli amici, “L’hanno lasciata sola”, solleva interrogativi importanti sul ruolo del contesto sociale nel sostenere le vittime e sulla necessità di creare una rete di supporto più efficace e attenta.
L’indagine, ora nella fase di ricostruzione del percorso dell’assassino, si concentra sull’analisi dei suoi movimenti, tracciando il viaggio da Cervia a Milano, un viaggio macabro motivato, a quanto pare, dalla possessività ossessiva e dalla convinzione distorta di Pamela come “suo oggetto”.
L’esame dei telefoni sequestrati, con le complesse procedure tecniche necessarie, rappresenta un tassello fondamentale per ricostruire le comunicazioni tra la vittima e l’aggressore, per individuare eventuali segnali di minaccia o di coercizione, e per comprendere meglio le motivazioni che hanno portato alla tragedia.
Il caso Genini, al di là della sua tragicità individuale, si pone come un monito per la società, un invito a riflettere sulle cause profonde della violenza di genere, sulla necessità di educare al rispetto e all’uguaglianza, e sull’importanza di offrire alle vittime strumenti di protezione e di supporto.
Il silenzio non può essere una risposta.




