L’amore, un enigma apparentemente irrisolvibile, si rivela, paradossalmente, comprensibile.
Contrariamente a chi lo considera una forza trascendente, al di là della portata umana, un’analisi lucida ne svela i meccanismi, le dinamiche sottostanti.
Vito Mancuso, nel cuore di Napoli, in una cornice di fervore culturale, ne esplora le profondità, offrendo una riflessione che scavalca la banalità di un sentimento e si erge a filosofia di vita.
La sua presenza a Palazzo Cavalcanti, nell’ambito di “Dialoghi” con Lucy, non è casuale.
Napoli, città di contrasti, di passioni incandescenti e di sofferenze antiche, si configura come il luogo ideale per decostruire l’amore.
Un amore che, lungi dall’essere relegato alla sfera romantica, si rivela una forza propulsiva, un motore di cambiamento, capace di generare sia catastrofi che trionfi, di plasmare la storia e di alimentare miti.
Mancuso distingue nettamente l’amore come sentimento dal suo potenziale filosofico.
Non si tratta di un’esperienza puramente emotiva, confinata al cuore, ma di una lente attraverso cui interpretare l’esistenza, un sistema di valori che influenza le azioni e orienta le scelte.
L’amore, in questa accezione, è il *sapere* che permea il vivere, l’essenza stessa della vita.
L’esperienza napoletana, un periodo delicato e cruciale nella sua esistenza, lo ha segnato profondamente.
Riconosce un legame viscerale con la città, un affetto sincero e una gratitudine per ciò che gli ha offerto.
Napoli, con la sua capacità di esaltare e lacerare, incarna la dialettica intrinseca all’amore: un rapporto inscindibile con il dolore, una promessa di estasi e di disillusione.
L’amore, però, non è solo un’esperienza positiva.
L’inconscia paura del rifiuto, la vulnerabilità di chi si abbandona completamente, emergono come ombre in questa luce accecante.
L’innamoramento, in quest’ottica, è una ferita involontaria, una destabilizzazione dell’identità, un crollo delle certezze.
L’immagine della Torre di Pisa, simboleggia la fragilità, l’impossibilità di mantenere il controllo, la perdita dell’equilibrio.
Gli antichi, con la loro sapienza, avevano già colto questa verità, rappresentando l’amore con la freccia di Cupido, l’ardore di Eros.
L’amore, dunque, non è un atto di possesso, ma una resa, un abbandono, un atto di fiducia nell’ignoto.
È un viaggio che trasforma, che mette in discussione le convinzioni, che rivela la profondità dell’animo umano, in un continuo oscillare tra la gioia e la sofferenza, la speranza e la disperazione, l’apice dell’estasi e l’abisso del dolore.