L’uscita dal carcere di Cagliari di Niko Pandetta, esponente del panorama musicale neomelodico catanese e figura legata al mondo criminale per via del nonno, Turi Cappello, storico boss mafioso, segna un capitolo nuovo in una vicenda giudiziaria complessa e controversa.
 Il trasferimento, autorizzato dal magistrato di sorveglianza sardo, lo conduce in una comunità di recupero in Calabria, dove proseguirà lo sconto di una pena di quattro anni e cinque mesi, originariamente inflitta per reati di spaccio e evasione.
 La decisione, resa pubblica da un video amatoriale diffuso sui social media, testimonia una fase di transizione in un percorso di reinserimento sociale che si preannuncia tutt’altro che semplice.
La vicenda giudiziaria di Pandetta, 32 anni, affonda le radici nel 2024, quando è stato arrestato a Milano in esecuzione di un provvedimento di carcerazione emesso dal Tribunale di Catania.
 Questo seguito all’annullamento del ricorso presentato dallo stesso Pandetta, confermato in via definitiva dalla Corte di Cassazione.
 La condanna, pesantemente gravata dal passato familiare e dalle accuse di traffico di stupefacenti, si intreccia con ulteriori indagini condotte dalla DDA di Palermo.
 Pandetta è infatti coinvolto in un’indagine che mira a svelare un sofisticato sistema di contrabbando di dispositivi elettronici e sostanze stupefacenti all’interno del carcere Pagliarelli, sollevando interrogativi inquietanti sulle dinamiche di potere e la capacità di eludere i controlli anche all’interno del sistema penitenziario.
L’episodio che ha amplificato la risonanza mediatica del caso è legato alla diffusione, durante il concerto “One Day” alla Plaia di Catania, di un video raffigurante Pandetta.
La trasmissione del video, opera del trapper Baby Gang, ha generato un’ondata di sconcerto e indignazione, innescando un’immediata perquisizione nel carcere di Rossano, dove lo stesso Pandetta era detenuto.
 La scoperta di un cellulare nascosto nella cella ha confermato i sospetti di una rete di comunicazione clandestina che permetteva al detenuto di rimanere in contatto con l’esterno, perpetrando un’apparente sfida all’autorità giudiziaria e al sistema di sicurezza penitenziaria.
 Il caso Pandetta, quindi, si configura come un complesso intreccio di reati, legami familiari con la criminalità organizzata, dinamiche di comunicazione illegali all’interno del carcere e una crescente preoccupazione per la possibilità che, anche dietro le sbarre, i contatti e le influenze del mondo criminale possano continuare a operare, compromettendo l’efficacia della pena e la sicurezza pubblica.
La comunità di recupero calabrese rappresenta un tentativo di offrire a Pandetta una possibilità di redenzione, ma la sfida di spezzare il ciclo di criminalità e ricostruire una vita onesta si presenta come ardua, esigendo un impegno costante da parte dello stesso detenuto e un controllo attento da parte delle istituzioni.



 
                                    


