Le parole, sfilacciate, emergono da un abisso di incertezza e apprensione.
Un’ammissione di colpa involontaria, una frase fraintesa, un’interpretazione errata che innesca una spirale di ansia e un tentativo disperato di difesa: “Mi prostro innocente”.
L’uomo, l’ex prefetto Filippo Piritore, si erge come un fantasma intrappolato nel labirinto di una verità compromessa, un’ammissione resa durante l’interrogatorio preventivo al Giudice per le Indagini Preliminari.
L’accusa è grave: depistaggio.
Un’azione mirata a oscurare le tracce cruciali nel caso dell’omicidio di Piersanti Mattarella, l’ex presidente della Regione Siciliana, una ferita ancora aperta nella coscienza della nazione.
Il guanto in pelle, rinvenuto nell’auto utilizzata dai killer per la fuga, un elemento probatorio che avrebbe dovuto accelerare le indagini, è stato, a quanto pare, manipolato, fatto sparire nell’ombra di una rete di omissioni e false direttive.
“Non ho occultato nulla”, afferma Piritore, ma la sua voce vacilla, incrinata da un’ombra di consapevolezza.
La responsabilità, almeno in parte, viene scaricata su figure superiori, su “dirigenti dell’epoca” che, in un ordine non esplicitato, lo avrebbero indirizzato a compiere azioni che oggi appaiono compromettenti.
“Ho fatto solo il mio dovere”, una giustificazione fragile, un tentativo di ancorarsi a un passato che ora, a distanza di anni, lo trascina in un vortice giudiziario.
Ricorda di essere stato alla sezione rapine, un reparto della Squadra Mobile di Palermo, e ricorda il suo superiore, il dottor Contrada, con cui però non intratteneva rapporti particolarmente stretti.
Il 6 gennaio, il giorno del delitto, fu contattato a casa e si recò sul luogo dove era stata rinvenuta l’autovettura.
“Non ricordo chi c’era, ma qualcuno era già lì”, una vaghezza inquietante che alimenta il sospetto di una catena di responsabilità più ampia.
Il racconto, a tratti contraddittorio, si scontra con le dichiarazioni precedenti, rese ai pubblici ministeri nel 2024 e nelle relazioni degli anni passati.
In un’occasione, aveva affermato di aver consegnato il guanto a un agente della Scientifica, un’affermazione smentita da quest’ultimo, il quale a sua volta lo aveva attribuito all’allora procuratore Piero Grasso, figura chiave nella lotta alla mafia, il quale ha sempre negato di aver ricevuto l’oggetto.
Il passaggio di consegne, secondo la ricostruzione di Piritore, si sarebbe poi concluso con un altro poliziotto, Lauricella.
Un nome che genera ulteriore confusione: Lauricella non risultava in servizio presso la Scientifica al momento dei fatti.
L’assenza di Lauricella nella Scientifica solleva interrogativi inquietanti sulla veridicità del racconto di Piritore e sulla possibilità di una regia occulta, di un tentativo di depistaggio più articolato di quanto si possa immaginare.
L’eco di quelle parole, sfilacciate e incerte, risuona ancora oggi, alimentando la ricerca della verità su un caso che ha segnato indelebilmente la storia d’Italia, un caso che si rivela, a distanza di decenni, un intrico di omissioni, false piste e, forse, un silenzio complice.






