La perdita di Rosa, strappata alla vita in circostanze tanto inattese quanto dolorose, ha lasciato un vuoto incolmabile e sollevato interrogativi urgenti sul delicato rapporto tra istituzioni sanitarie e familiari dei pazienti.
Giusto Santoro, con la voce ancora rotta dal dolore, racconta una vicenda intrisa di disorientamento e sofferenza, un racconto che va oltre il semplice lutto per interrogare il sistema.
La notizia della scomparsa, giunta ben tredici ore dopo il decesso, non è pervenuta direttamente dal team medico che si prendeva cura di Rosa.
Questa disconnessione, questa mancanza di comunicazione, ha amplificato l’angoscia di Santoro, che si è sentito improvvisamente escluso da un momento cruciale della vita della sua congiunta.
Rosa, 62 anni, era stata ricoverata in terapia intensiva dopo un improvviso malore a domicilio, un malore che precedeva un percorso di cura complesso, monitorato a Padova e recentemente oggetto di accertamenti al Cto di Palermo, dove le condizioni erano apparse stabili.
Il silenzio, però, ha generato una spirale di preoccupazione.
Santoro, recatosi in ospedale per farle visita, si è trovato a vagare per i reparti, incapace di rintracciare la sua congiunta.
La drammatica rivelazione, giunta da una figura non identificata come medico, ha consegnato un quadro desolante: il corpo di Rosa, adagiato su una lastra di marmo, all’interno di un sacco, con una semplice etichetta a indicarne l’identità.
Un’immagine indelebile, un simbolo della disumanizzazione che può insinuarsi anche nei contesti di cura.
L’ulteriore beffa è stata la comunicazione del decesso, non direttamente da parte dell’ospedale, ma attraverso i Carabinieri, i quali, a loro volta, avevano faticato a localizzare i familiari.
Il racconto di Santoro sottolinea una profonda falla nel sistema di comunicazione, un cortocircuito che ha privato la famiglia di un supporto emotivo fondamentale in un momento di estrema vulnerabilità.
La risposta dell’azienda ospedaliera Civico tenta di giustificare il ritardo comunicativo, affermando che il medico di guardia, constatato l’aggravarsi delle condizioni di Rosa, aveva tentato invano di contattare i familiari tramite il numero di telefono fornito.
La versione ufficiale indica che, a causa dell’impossibilità di raggiungere i congiunti, i Carabinieri sono stati allertati.
Tuttavia, l’episodio solleva interrogativi fondamentali: quali sono le procedure adeguate per garantire una comunicazione tempestiva ed efficace in situazioni di emergenza? Quale responsabilità ricade sulle strutture sanitarie nel fornire un supporto emotivo ai familiari dei pazienti, soprattutto in contesti di terapia intensiva?Questo tragico evento non può essere relegato a un semplice incidente procedurale.
Richiede una profonda riflessione etica e organizzativa, un ripensamento del ruolo dell’ospedale non solo come luogo di cura medica, ma anche come punto di riferimento umano per le famiglie.
È urgente promuovere un approccio più empatico e sensibile, in cui la dignità del paziente e il benessere dei suoi cari siano al centro dell’attenzione.
La vicenda di Rosa, al di là del dolore che lascia, si configura come un monito a costruire un sistema sanitario più umano, più attento all’individuo e alle sue relazioni affettive.