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Sollecito: l’assoluzione non cancella lo stigma sociale.

Il peso di un’assoluzione può risultare, paradossalmente, più gravoso della stessa condanna.

Raffaele Sollecito, tornato a esprimersi attraverso un video diffuso sui social media, ne è testimonianza diretta, riaprendo una ferita che, a quindici anni dall’inizio del dramma, continua a sanguinare.
L’omicidio di Meredith Kercher, evento che ha scosso l’Italia e il mondo, ha lasciato un’impronta indelebile nella sua vita, un marchio che nessuna sentenza, nemmeno la più autorevole, è riuscita a cancellare.

L’esperienza di Sollecito, e parallelamente quella del caso Garlasco, solleva interrogativi profondi sulla giustizia, la percezione pubblica e il ruolo del cosiddetto “politicamente corretto”.

Mentre la società si sforza di proteggere le minoranze e di arginare il linguaggio offensivo, l’innocenza di un individuo può essere facilmente calpestata da pregiudizi e da un’opinione pubblica pronta a emettere verdetti sommari.
Il percorso giudiziario è stato un labirinto di accuse, condanne in primo grado, assoluzioni in appello, sentenze annullate e nuovi processi.

La condanna definitiva, e successiva assoluzione da parte della Corte di Cassazione, ha formalmente ripristinato la sua libertà, ma non ha restituito la dignità e la fiducia perdute.
Rudy Guede, l’unico riconosciuto colpevole del crimine, ha concluso il suo percorso con la giustizia, mentre Sollecito si ritrova a navigare in un mare di sospetti e diffidenza.
Il “marchio” che lo accompagna non è una macchia di colpa, bensì uno stigma sociale, un’etichetta che lo separa dagli altri.
È una barriera invisibile che si erge tra la sua realtà e la percezione che gli altri hanno di lui.
Anche nelle azioni più banali, come entrare in un bar o fare la spesa, si sente costretto a dimostrare la propria innocenza, a colmare il divario tra chi è realmente e l’immagine distorta che gli altri proiettano addosso.
La vicenda Sollecito-Kercher, lungi dall’essere un caso isolato, riflette una più ampia crisi di fiducia nel sistema giudiziario e una tendenza a sacrificare l’innocenza sull’altare della ricerca di un capro espiatorio.
Il “politically correct”, spesso invocato per tutelare le sensibilità altrui, sembra dimenticare la necessità di proteggere chi è stato ingiustamente accusato, di offrire una seconda possibilità a chi ha subito l’onta di un’accusa infamante.

Il video di Sollecito è un grido di dolore, un appello alla comprensione, un monito a non giudicare frettolosamente, a guardare oltre le apparenze, a riconoscere la fragilità e la vulnerabilità di chi, pur essendo assolto, si sente ancora prigioniero di un pregiudizio che nessuna sentenza può cancellare.
La sua storia ci invita a riflettere sul significato della giustizia, sull’importanza della riabilitazione e sulla necessità di offrire a chi ha subito un’ingiustizia la possibilità di ricostruire la propria vita con dignità e rispetto.

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