Nel cuore dell’area industriale di Tito, in provincia di Potenza, si è concretizzata un’azione giudiziaria di portata significativa: i Carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico hanno disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dell’intera area di pertinenza della Daramic, colosso statunitense leader nella produzione di componenti essenziali per la tecnologia delle batterie. Il provvedimento, emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Potenza e accompagnato dalla notifica di conclusione indagini, colpisce un’area vasta, ben 48.000 metri quadrati, particolarmente delicata per il suo valore paesaggistico e la sua inclusione all’interno di un Sito di Interesse Nazionale (SIN) gravato da criticità ambientali.L’inchiesta, iniziata nel 2023, ha portato alla luce una complessa rete di responsabilità a carico di tredici individui: sei funzionari pubblici e sette dirigenti aziendali, tra cui esponenti di nazionalità elvetica e curatori fallimentari. Le accuse principali sono disastro ambientale aggravato, omessa bonifica e gestione illecita di rifiuti. Si tratta di un quadro che rivela non solo una trasgressione delle normative ambientali, ma anche una potenziale collusione tra attori pubblici e privati.L’elemento centrale dell’indagine ruota attorno alla persistente presenza di tricloroetilene, una sostanza chimica altamente inquinante, identificata come fonte primaria di contaminazione. La sua diffusione incontrollata ha determinato un significativo e duraturo deterioramento della falda acquifera, con ripercussioni estese ben al di là dei confini del SIN. Rilevazioni hanno evidenziato concentrazioni di tricloroetilene fino a 110 volte superiori ai limiti di legge, contaminando non solo le acque destinate all’agricoltura, ma anche il corso del torrente Tora, ecosistema vitale per la biodiversità locale.L’azione giudiziaria si inserisce in una storia già costellata di precedenti problematiche. Già nel 2005, l’area aveva manifestato livelli di contaminazione da tricloroetilene allarmanti, con concentrazioni superiori a un milione e quattrocentomila volte i limiti consentiti. Nel 2010, l’azienda aveva trasferito all’estero oltre 19 milioni di euro, fondi che avrebbero dovuto essere destinati alla bonifica del sito. La successiva nascita della società Step One non ha contribuito a risolvere il problema: in cinque anni di attività, non sono state intraprese azioni di risanamento ambientale né sviluppate iniziative imprenditoriali, culminando nel fallimento.La gravità del provvedimento risiede non solo nella violazione delle normative ambientali, ma anche nell’evidenziare un potenziale sistema di elusione delle responsabilità, con la sottrazione di risorse destinate alla riqualificazione ambientale. L’inchiesta si apre ora a un’analisi approfondita delle dinamiche economiche e gestionali che hanno portato alla situazione attuale, con l’obiettivo di garantire la piena riparazione del danno ambientale e l’applicazione di sanzioni esemplari per i responsabili. La vicenda pone l’accento sulla necessità di un controllo più stringente e di una maggiore trasparenza nella gestione delle attività industriali, soprattutto in aree sensibili come i Siti di Interesse Nazionale.
Sequestro e inchiesta a Potenza: contaminazione da sostanze chimiche e sospetti di elusione.
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