Il processo a Novara ha messo a confronto la corte d’Assise con un dramma familiare lacerante, incarnato nella deposizione di Edoardo Borghini, accusato di aver causato la morte del figlio Nicolò, 34 anni, in una notte di violenza in una villetta di Ornavasso.
La ricostruzione offerta dall’imputato, un uomo di 64 anni, dipinge un quadro di escalation aggressiva e perdita di controllo, una spirale di rancore che culminò in un atto fatale.
La narrazione di Borghini ruota attorno a una serata apparentemente ordinaria, interrotta bruscamente dal rientro in casa del figlio, Nicolò, in stato di ebbrezza.
L’ingresso forzato, le invettive volgari, la carica di aggressività verbali – accuse di ingratitudine e falsità rivolte alla madre – anticipano una dinamica di conflitto destinata a degenerare.
Il gesto di violenza autodistruttiva, un pugno contro un quadro che recide la mano del figlio, sembra un preludio alla furia successiva, un’esplosione di frustrazione e risentimento repressa.
La testimonianza si concentra sul ruolo percepito da Borghini di protettore della moglie, vittima di un’aggressione fisica.
L’uomo descrive un tentativo disperato di sottrarsi alla violenza, una fuga verso la sicurezza della cantina, ostacolata dalla forza e dalla determinazione del figlio, il quale, con parole di sfida e superiorità, negava la possibilità di sottrarsi al suo controllo.
L’immagine dei genitori in pigiama, di Borghini a piedi nudi in una notte fredda e piovosa, contrasta con la furia primordiale che scuoteva le fondamenta della casa.
La presenza della cognata disabile, reclusa nella sua stanza, introduce un elemento di complessità emotiva.
La paura per la sua incolumità, secondo la sua versione, spinse Borghini a risalire in casa, innescando la tragica sequenza di eventi che portò ai due colpi di arma da fuoco.
La testimonianza, intrisa di dolore e, forse, di auto-giustificazione, solleva interrogativi sulla responsabilità, la legittima difesa e i limiti del controllo genitoriale di fronte a un figlio dilaniato da demoni interiori e da un rancore apparentemente inestinguibile.
Il processo si configura non solo come una vicenda giudiziaria, ma come un’esplorazione profonda delle dinamiche familiari distorte, della fragilità umana e delle conseguenze devastanti della perdita di controllo.







