martedì 9 Dicembre 2025

Aggressione con acido: sentenza e il difficile peso dell’intento

La vicenda giudiziaria che si è conclusa a Verbania, con la condanna a tre anni per un uomo accusato di aver aggredito la sua ex compagna, solleva questioni complesse riguardanti l’intento criminoso, la natura dei danni e la corretta qualificazione giuridica di un atto violento.

L’episodio, avvenuto all’interno di un salone da parrucchiere, vedeva l’aggressore rovesciare sulla donna due flaconi di acido muriatico, un gesto che, a prima vista, sembrava configurare un tentativo di deformazione permanente del volto.

Tuttavia, l’analisi peritale e la valutazione del giudice delle sezioni civili, Mauro D’Urso, hanno fornito una chiave di lettura differente.

L’acido cloridrico, con una concentrazione del 6,5%, pur essendo una sostanza corrosiva, non ha prodotto lesioni irreversibili.

Questo dato cruciale è stato determinato dalla possibilità di un intervento immediato: l’abbondante risciacquo effettuato subito dopo l’aggressione ha impedito la cristallizzazione dell’acido sulla pelle, evitando i danni che avrebbero potuto concretizzarsi in cicatrici profonde o alterazioni permanenti.

L’esito processuale ha portato a una riqualificazione dei capi d’imputazione.

Il giudice, pur non attenuando in alcun modo la gravità della condotta – un atto di aggressione premeditata e intimidatoria – ha escluso la configurabilità del reato di tentata deformazione dell’aspetto.

L’aggravamento, contestato dal pubblico ministero e accolto dal giudice, si è tradotto in una condanna per tentate lesioni gravissime, un’accusa che riflette la potenziale gravità del danno che l’aggressore avrebbe potuto causare.
L’episodio si inserisce in un contesto di escalation di comportamenti intimidatori.

Nei giorni precedenti l’aggressione, l’uomo aveva inviato alla donna una serie di messaggi allarmanti, che rivelano un preciso intento minatorio.

Frasi come “Quegli occhi potrebbero non vedere più”, “L’acido brucia bene” e “Guardati le spalle!” testimoniano una volontà di terrorizzare la donna e di esercitare su di lei un controllo psicologico.

L’aggiunta, cinica e inquietante, “Se vai dai carabinieri per te è finita,” suggerisce una conoscenza del sistema giudiziario e un tentativo di scoraggiare la denuncia.

La sentenza solleva interrogativi sulla valutazione dell’intento criminoso in relazione alla materialità del danno.

Pur in assenza di lesioni permanenti, l’atto di aggressione, premeditato e accompagnato da minacce, rappresenta una grave violazione della persona e un atto di intimidazione che ha profondamente turbato la vittima.
La vicenda evidenzia come la corretta qualificazione giuridica di un reato possa dipendere da una complessa valutazione di elementi fattuali e di circostanze aggravanti, con particolare attenzione al contesto in cui l’atto viene commesso e alle intenzioni dell’aggressore.

Il caso dimostra, inoltre, l’importanza cruciale delle prime cure e dell’intervento immediato nel mitigare la gravità di un atto violento, ma non nell’attenuare la responsabilità morale e legale dell’aggressore.

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