Il rientro in Italia di Abderrahmane Amajou, attivista piemontese coinvolto nella Global Sumud Flotilla, segna un momento di cruciale rilevanza, non solo per la sua famiglia e i suoi sostenitori, ma per l’intera comunità che segue con attenzione le dinamiche del conflitto israelo-palestinese.
Amajou, originario di Bra, Cuneo, è l’unico rappresentante del Piemonte ad aver partecipato fino in fondo alla spedizione umanitaria, e la sua testimonianza, ora liberamente espresso nel contesto italiano, aggiunge un tassello significativo al mosaico di denunce che emergono dalle carceri israeliane.
L’esperienza di Amajou, a differenza di molti altri attivisti, non si limita a un racconto di detenzione, ma offre un resoconto dettagliato di un sistema carcerario israeliano che, a suo dire, impiega tattiche volte a instillare terrore e a reprimere la volontà di resistenza attraverso metodi psicologici e fisici.
La privazione del sonno, con irruzioni notturne armate e simulazioni di perquisizioni canine, si configura come una strategia deliberata per destabilizzare e intimidire i detenuti, anticipando un’escalation di violenza che, fortunatamente, non si è concretizzata in danni fisici evidenti.
La testimonianza di Amajou si inserisce in un contesto più ampio di accuse di maltrattamenti rivolte alle autorità israeliane, e offre dettagli specifici su episodi che hanno avuto luogo fin dallo sbarco ad Ashdod.
La rapida transizione di un soldato, da aggressore che trascina per i capelli un giovane italiano, a premuroso dispensatore di acqua, a seguito dell’arrivo delle telecamere, è un’amara dimostrazione della performatività della repressione, una maschera che cade di fronte all’occhio pubblico.
La confisca dei farmaci e il loro smaltimento in discarica, senza alcuna cura successiva, sono un ulteriore tassello di un quadro di negligenza medica che ha portato alla decisione di intraprendere uno sciopero della fame collettivo, in particolare per la salvaguardia di due detenuti diabetici in condizioni critiche.
Le condizioni di vita nel penitenziario, come descritte da Amajou, rivelano una realtà di sovraffollamento e disorganizzazione: celle con tredici persone, costrette a dormire su giacigli improvvisati, testimoniano una gestione improntata alla minimizzazione delle risorse e alla svalutazione della dignità umana.
L’intervento del giudice e dei diplomatici, sebbene abbia portato ad un miglioramento delle condizioni, sottolinea l’importanza del monitoraggio internazionale e dell’intervento legale per garantire il rispetto dei diritti umani anche nei confronti di attivisti e dissidenti politici.
La voce di Abderrahmane Amajou, forte e chiara, si leva ora in Italia, richiamando l’attenzione sulla necessità di un’indagine approfondita e trasparente sulle pratiche carcerarie israeliane e sulla garanzia di giustizia per le vittime di abusi.








