Un anno di silenzio, un anno di angoscia che si fa eco nelle parole di Armanda Colusso Trentini, la madre di Alberto, cooperante italiano ingiustamente detenuto in Venezuela.
L’appello lanciato con forza sulle pagine de *la Repubblica* non è un semplice richiamo all’attenzione, ma un grido di speranza, un monito per la comunità internazionale e, soprattutto, un implorare per l’azione decisa da parte delle autorità venezuelane e del governo italiano.
Alberto, 46 anni, coordinatore per la prestigiosa ONG francese ‘Humanity and Inclusion’, si trova recluso in un carcere di Caracas da quando, il 15 novembre dello scorso anno, è stato fermato ad un posto di blocco.
Le circostanze della sua detenzione, sebbene ancora opache, non giustificano in alcun modo una privazione di libertà che si protrae per un tempo così prolungato.
La vicenda di Alberto non è un caso isolato; rientra in un contesto più ampio di tensioni geopolitiche e delicate questioni umanitarie che affliggono il Venezuela.
Tuttavia, la sua storia personale trascende le dinamiche internazionali, restituendoci l’immagine di un uomo dedicato al servizio degli altri, un professionista apprezzato per la sua competenza e umanità, che ora si trova in una condizione di indifesa.
La pressione mediatica, spesso considerata un’arma a doppio taglio, in questo frangente si rivela un elemento cruciale per sensibilizzare l’opinione pubblica, per sollecitare un intervento diplomatico incisivo e per esercitare una pressione costruttiva sulle istituzioni venezuelane.
Non si tratta di un’azione di confronto o di giudizio, ma di una richiesta di trasparenza, di giustizia e di rispetto per i diritti fondamentali dell’uomo.
Domani, a Milano, si terrà un incontro dedicato alla vicenda di Alberto, un’occasione per riprendere la discussione, per raccogliere testimonianze e per rinnovare l’impegno a non abbandonare la speranza.
La mobilitazione promossa da Armanda Colusso Trentini non è solo un appello alla solidarietà, ma un atto di civiltà, un richiamo ai valori di giustizia, di compassione e di impegno per un mondo più equo e rispettoso dei diritti umani.
Il silenzio, in questo caso, è complice dell’ingiustizia.
La voce collettiva, al contrario, può essere un potente strumento di cambiamento, un faro che illumina il cammino verso la liberazione di Alberto e la restituzione della dignità ad un uomo che ha dedicato la sua vita al servizio degli altri.
Non stancatevi di parlarne, scrivetelo, diffondetelo: ogni azione, per quanto piccola, contribuisce a rafforzare la rete di solidarietà che può condurre Alberto finalmente a casa.







