Il caso clinico del bambino palestinese arrivato a Verona a giugno, e attualmente seguito in regime ambulatoriale dopo un ricovero protratto, solleva interrogativi profondi sulla genetica, la nutrizione e le sfide mediche che affliggono popolazioni vulnerabili in contesti di conflitto.
La diagnosi di “leaky SCID” (Severe Combined Immunodeficiency), una forma di immunodeficienza primaria caratterizzata da una grave compromissione del sistema immunitario, si rivela particolarmente significativa in quanto la mutazione genetica identificata appare endemica in una ristretta popolazione arabo-palestinese, presente solo in cinque altri casi precedentemente documentati.
Questa peculiarità genetica, localizzata geograficamente, suggerisce un possibile effetto fondatore o una selezione naturale avvenuta in quell’area, richiedendo ulteriori studi genetici per comprendere appieno la sua origine e diffusione.
La “leaky SCID”, a differenza delle forme classiche, presenta una parziale funzionalità dei linfociti T, che sebbene insufficiente, ritarda l’insorgenza di infezioni opportunistiche e complica la prognosi, rendendo più sfumate le scelte terapeutiche.
L’arrivo del bambino, insieme alla madre e al fratello sano, a bordo di un volo militare, ha rappresentato una sfida logistica e medica.
Le condizioni di grave malnutrizione riscontrate all’atto del ricovero hanno esacerbato la compromissione immunitaria preesistente, evidenziando le conseguenze devastanti della carenza di risorse e dell’instabilità sociale.
La profonda carenza di linfociti T, cellule fondamentali per l’immunità cellulare, lo rendeva estremamente suscettibile a infezioni virali, parassitarie e batteriche, con un rischio elevato di sviluppare malattie potenzialmente letali.
Il percorso di rinutrizione, attentamente monitorato e calibrato, ha portato a un aumento significativo del peso corporeo, attestando l’efficacia degli interventi riabilitativi e l’importanza di un supporto nutrizionale tempestivo.
Nonostante i progressi, la prognosi rimane incerta.
Il team medico veronese è ora impegnato in una complessa valutazione per determinare la possibilità di recupero autonomo del sistema immunitario o la necessità di terapie più aggressive, come il trapianto di cellule staminali emopoietiche, procedura che comporta rischi e benefici da soppesare attentamente.
La profilassi antibiotica, antifungina e antivirale, proseguita a domicilio, mira a prevenire ulteriori infezioni mentre si definisce il piano terapeutico a lungo termine, sottolineando la necessità di un monitoraggio costante e di un approccio multidisciplinare che coinvolga specialisti di diverse discipline.
Il caso, al di là della sua rilevanza clinica, pone questioni etiche e umanitarie che richiedono un’attenzione globale e un impegno concreto per migliorare le condizioni di salute delle popolazioni più vulnerabili.