La tensione palpabile, densa come la nebbia che spesso avvolge Marghera, si è materializzata in un blocco umano imponente.
Un fiume di persone, stimato in almeno quindicimila unità, si è riversato sulle strade, un corteo vibrante di rabbia e frustrazione, con l’obiettivo dichiarato di accedere al complesso industriale del porto commerciale.
L’attesa, protrattasi per ore sotto l’implacabile sguardo del casello, aveva alimentato un’energia repressa, pronta a esplodere.
La manifestazione, nata da un sentire diffuso di disagio e preoccupazione per le conseguenze socio-ambientali dell’attività portuale, rappresentava una convergenza di diverse istanze: lavoratori precari, attivisti ambientali, residenti locali esasperati dalla crescente inquinamento e dalla percezione di un potere industriale incontrollato.
Il corteo non era un evento isolato, ma l’apice di un conflitto latente, un grido di protesta contro una realtà percepita come ingiusta e insostenibile.
L’avanzata del corteo, inizialmente pacifica e determinata, si è scontrata con il muro invalicabile rappresentato dalle forze dell’ordine, schierate a protezione dell’infrastruttura.
La situazione si è polarizzata in un istante, quando, con una decisione repentina, gli idranti si sono attivati, riversando getti d’acqua gelida sui manifestanti, trasformando l’aria in una coltre umida e pungente.
La reazione non si è fatta attendere.
Un gesto isolato, un atto di disperazione o di rabbia, ha innescato una breve, violenta rappresaglia: alcune bottiglie sono state lanciate verso le linee di polizia.
Questo episodio, marginale ma simbolico, ha amplificato la frattura e ha fornito un pretesto per una risposta più decisa da parte delle forze dell’ordine, che hanno progressivamente iniziato ad avanzare, spingendo indietro il corteo.
Il grido di “fascisti!” si è levato dalla folla, un’espressione di indignazione e di senso di tradimento, un’accusa rivolta a coloro che, con la forza, impedivano la loro legittima richiesta di ascolto.
Non era solo un’etichetta denigratoria, ma la percezione di un potere autoritario e repressivo, incapace di dialogare e di prendere in considerazione le loro preoccupazioni.
La pressione delle forze dell’ordine, unita alla consapevolezza di essere in inferiorità numerica e di fronte a un dispositivo repressivo organizzato, ha lentamente indotto il corteo a cedere terreno.
L’abbandono dell’ingresso del porto non è stato un atto di resa, ma una ritirata strategica, un segnale che la lotta per la giustizia e la sostenibilità ambientale non si sarebbe fermata, ma avrebbe trovato nuove forme e nuovi luoghi di confronto.
Il corteo si è sciolto, ma la sua eco avrebbe continuato a risuonare, alimentando la speranza di un futuro più equo e rispettoso del territorio e delle persone che lo abitano.