Il mio cinema, fino ad ora, è stato un autocompiacimento masochistico, un labirinto costruito con le mie mani per intrappolarmi.
Questa volta, tuttavia, il senso di inquietudine è palpabile, una sensazione di precarietà che mi lascia presagire un esito inatteso, forse irreparabile.
Avrei dovuto ascoltare le sagge parole di Filomena, la mia maestra di doposcuola, che con la semplicità di una fiaba mi ammoniva sui pericoli della smania e della superbia, ma il tempo per la redenzione sembra esaurito, tanto quanto le riserve di lardo che nutrivano la sua parabola.
Franco Maresco, con la sua acuta e implacabile ironia, ci introduce in questo vortice creativo, un omaggio – o forse una provocazione – a Carmelo Bene, figura complessa e geniale, capace di scardinare le convenzioni artistiche e di interrogarci sul significato dell’esistenza.
Il film, destinato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e in seguito distribuito nelle sale, si presenta come un metacinema enigmatico e stratificato.
La narrazione si frammenta in un gioco di specchi.
Il film di Maresco su Bene subisce un’interruzione brusca, innescata dalla frustrazione del produttore Andrea Occhipinti, messo a dura prova da una produzione prolungata e ritardata.
L’interruzione diventa l’opportunità per il regista, noto per opere come “Belluscone” e “La mafia non è più quella di una volta”, di denunciare un “filmicidio”, un atto di censura che lo porta a scomparire, inghiottito da un’ombra di mistero.
A tentare una riconciliazione, a ricostruire i cocci di un’operazione artistica naufragata, si fa avanti Umberto Cantone, amico e confidente di Maresco.
Cantone avvia un’indagine, un’inchiesta che raccoglie le testimonianze di tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del film.
Questa ricerca diventa un viaggio introspettivo, un’esplorazione della vita, delle idee e dell’opera di Carmelo Bene, figura controversa e radicale che ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama culturale italiano.
Ma se, lontano da occhi indiscreti, Maresco stesse segretamente completando il suo film, trasformandolo in una valvola di sfogo per la sua rabbia, per il suo senso di disillusione nei confronti di un mondo che percepisce come intrinsecamente corrotto? Un’opera che, forse, non è altro che un grido di dolore, un tentativo disperato di dare forma a un orrore viscerale che lo attanaglia? Un’opera destinata a rivelare non solo la fragilità del sistema cinematografico, ma anche le crepe profonde che solcano l’anima umana.