domenica 24 Agosto 2025
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Don’t Let the Sun: Amore, Solitudine e Clima nel Futuro

In un futuro prossimo, soffocato da un calore inesorabile che fa crollare le temperature notturne al di sopra dei cinquanta gradi, “Don’t Let the Sun” di Jacqueline Zünd dipinge un affresco inquietante e disturbante della condizione umana.

Non si tratta di una fantascienza distopica, bensì di una proiezione lucida e spietata di tendenze già in atto, una riflessione amara sulla fragilità dei legami sociali nell’era del cambiamento climatico.
Il film, vincitore del premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Locarno, introduce Levan Gelbakhiani nel ruolo di Jonah, un uomo che incarna la solitudine e la ricerca disperata di connessioni autentiche.

La narrazione segue Jonah nel suo lavoro per un’agenzia specializzata nella fornitura di relazioni umane su misura.

In un mondo dove l’isolamento è diventato la norma, le persone ricorrono a servizi che offrono amicizia, legami familiari e persino simulazioni di matrimonio, colmando così il vuoto esistenziale con relazioni precarie e artificiali.
Jonah, nel suo ruolo, si ritrova a impersonare la figura paterna per Nika, una bambina cresciuta da una madre single (Agnese Claisse), e attraverso questa esperienza, intraprende un viaggio di scoperta personale, svelando zone d’ombra e potenzialità inaspettate.

L’ispirazione per il film è nata dall’esperienza di Zünd in Giappone, dove ha scoperto l’esistenza di aziende che offrono “contatti sociali” a noleggio.
Questa realtà ha acceso una riflessione profonda sulla natura mutevole delle relazioni umane, sull’impatto del mondo esterno sulla loro qualità e sulla crescente necessità di riempire il vuoto interiore con surrogati artificiali.
Zünd, affiancata da Arne Kohlweyer nella stesura della sceneggiatura, ha scelto di affrontare il tema dell’alienazione e della solitudine, inquadrandolo all’interno di un contesto ancora più urgente: la crisi climatica.
Il film dipinge un mondo notturno, dove la popolazione si rifugia nell’oscurità per sfuggire all’arsura implacabile del giorno.

L’architettura brutalista, dominante nel paesaggio urbano, diventa una metafora visiva della fragilità umana, riflettendo la desolazione e la precarietà delle esistenze.

Inizialmente, la scelta delle riprese si era concentrata su San Paolo, in Brasile, una metropoli dal forte carattere brutalista, ma difficoltà logistiche e politiche hanno portato a una soluzione ibrida: riprese aeree realizzate in Brasile, con la rimozione digitale delle persone dalle strade, e la costruzione di set a Milano e Genova, in particolare nei complessi abitativi di Monte Amiata e nelle iconiche “Lavatrici”, simboli di un’architettura popolare e funzionale.
Il film non è solo un’opera cinematografica, ma un monito, un’esplorazione delle nostre paure più profonde e un invito a riscoprire il valore inestimabile delle relazioni autentiche in un mondo sempre più artificiale e precario.

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