La gestione delle misure di sicurezza relative al derby Ascoli-Sambenedettese e alla successiva gara di Coppa Italia sta generando un acceso dibattito, mettendo in luce le complessità della convivenza tra ordine pubblico, passione calcistica e diritti delle comunità locali.
Le disposizioni emanate dall’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, recepite dalla Prefettura di Ascoli Piceno su indicazione della Questura, hanno introdotto restrizioni sull’acquisto dei biglietti e, in una decisione successiva, un divieto di vendita per residenti di sei comuni: Colli del Tronto, Castorano, Castignano, Cossignano, Carassai, Montalto Marche e Montedinove.
La motivazione ufficiale risiede nella carenza di un numero sufficiente di tesserati che permetta di identificare un chiaro orientamento calcistico all’interno di queste comunità.
L’intervento del consigliere regionale Andrea Cardilli (FdI), ex sindaco di Colli del Tronto, ha acceso i riflettori su una questione che va ben oltre la mera prevenzione di disordini.
Cardilli ha espresso forte disappunto per una decisione che, a suo dire, penalizza ingiustamente intere comunità, sottolineando l’assenza di consultazione con i sindaci dei comuni coinvolti e criticando l’inerzia dei primi cittadini di Ascoli e San Benedetto.
Inizialmente allineato con l’approccio cautelativo del Questore Aldo Fusco, volto a garantire la sicurezza in un contesto storico di forte rivalità, Cardilli ha cambiato prospettiva in seguito alle numerose segnalazioni ricevute dai cittadini esclusi.
La sua argomentazione si concentra sulla potenziale controproduzione delle restrizioni: anziché eliminare il rischio, si rischierebbe di spostarlo, creando nuovi focolai di aggregazione al di fuori degli stadi.
L’ipotesi è che, impedendo l’accesso allo stadio, i tifosi si concentrerebbero in luoghi non controllati, come bar e circoli, incrementando potenzialmente la possibilità di episodi problematici e minando la sicurezza pubblica.
La vicenda solleva questioni di principio cruciali.
La tutela dell’ordine pubblico non può giustificare una limitazione indiscriminata dei diritti di partecipazione alla vita sportiva e comunitaria.
La misura adottata rischia di creare un senso di marginalizzazione e frustrazione nelle comunità penalizzate, alimentando potenzialmente tensioni sociali.
Si pone l’urgenza di un ripensamento strategico che bilanci le esigenze di sicurezza con il diritto dei cittadini di sostenere la propria squadra, promuovendo al contempo un approccio più inclusivo e partecipativo nella gestione delle manifestazioni sportive.
La decisione di escludere intere comunità senza un dialogo costruttivo con i loro rappresentanti rischia di erodere la fiducia nelle istituzioni e di compromettere la coesione sociale.
Un’analisi più approfondita del fenomeno del tifo, che consideri le dinamiche sociali e culturali che lo animano, potrebbe rivelarsi più efficace nella prevenzione di comportamenti rischiosi e nella promozione di un clima di sana competizione sportiva.