Il paesaggio agrario sardo, con particolare riferimento alla coltivazione dei cereali, presenta oggi una fotografia complessa e in evoluzione.
Lungi dall’essere un settore statico, il comparto cerealicolo si è profondamente trasformato negli ultimi vent’anni, passando da una produzione più orientata verso l’alimentazione zootecnica ad una focalizzata prevalentemente sul consumo agroalimentare umano, con il grano duro che resta il pilastro fondamentale per la produzione di pane e pasta, elementi imprescindibili della dieta mediterranea.
Questa transizione non è stata casuale, ma è il risultato di una serie di fattori strutturali e politici.
Le riforme dell’Unione Europea, implementate nei primi anni del Duemila, hanno introdotto meccanismi di incentivazione alla diversificazione delle colture, promuovendo la rotazione delle lavorazioni e favorendo l’introduzione di leguminose.
L’obiettivo era contrastare la monocoltura, spesso associata a squilibri ambientali e diminuzione della fertilità del suolo.
Sebbene l’iniziativa abbia innescato una riduzione significativa delle superfici dedicate ai cereali, il recupero tramite la coltivazione di leguminose è stato parziale, lasciando un segno indelebile sulla quantità di grano duro coltivato.
I dati lo testimoniano: si è passati da una superficie di 97.108 ettari nel 2003 a un misero 28.475 ettari nel 2025, con un trend che, negli ultimi anni, non ha superato i 30.000 ettari.
Questa contrazione non è solo una questione di numeri; riflette una profonda crisi economica che affligge i cerealicoltori sardi.
I prezzi offerti, spesso oscillanti tra i 28 e i 26 euro al quintale a seconda della partecipazione a specifici programmi di filiera, sono risultati insufficienti a coprire i costi di produzione – preparazione del terreno, acquisto di sementi di qualità, trebbiatura – mettendo a rischio la sostenibilità delle aziende agricole.
Questa situazione spinge molti agricoltori a disinvestire nel cereale, orientandosi verso colture alternative o, nel caso più drammatico, ad abbandonare l’attività agricola, impoverendo il tessuto economico e sociale del territorio.
Per invertire questa tendenza negativa, è imperativo intervenire su due fronti cruciali.
Innanzitutto, è fondamentale valorizzare economicamente le filiere che promuovono la produzione di grano sardo di eccellenza, destinato alla realizzazione di prodotti tipici come il pane Carasau, un vero e proprio fiore all’occhiello della gastronomia isolana, e della pasta, un altro elemento distintivo del patrimonio alimentare sardo.
Queste filiere devono essere rafforzate attraverso politiche di sostegno mirate, che ne riconoscano il valore aggiunto e ne garantiscano la competitività.
In secondo luogo, è urgente affrontare il problema della concorrenza sleale del grano straniero, spesso prodotto secondo normative agro-sanitarie meno rigorose e quindi di qualità inferiore.
La crescente finanziarizzazione dei mercati agricoli ha amplificato questo squilibrio, rendendo ancora più difficile per i produttori sardi competere in termini di prezzo.
È necessario quindi implementare misure di salvaguardia che proteggano la produzione locale, garantendo parità di condizioni e promuovendo un commercio equo e sostenibile.
Il futuro del cerealicolo sardo, e con esso la salvaguardia di un patrimonio agroalimentare unico, dipende dalla capacità di agire con determinazione e lungimiranza.






