L’arroganza di postulare un universo disabitato, un’esclusiva per l’umanità, rivela una forma sottile di egocentrismo.
Non è un’affermazione casuale, ma un’apertura a prospettive più ampie, come suggerisce Emma Stone, nel ruolo di Michelle in “Bugonia”, l’interpretazione veneziana di un’opera che rielabora il geniale “Save the Green Planet!”.
La sua battuta, un guizzo di ironia in un contesto cinematografico complesso, apre a una riflessione più profonda sull’alterità e sulla nostra posizione nel cosmo.
“Bugonia”, un’opera che si confronta con l’originale sudcoreano di Jang Joon-hwan, è un caleidoscopio di elementi: commedia surreale, fantascienza dissacrante e satira sociale.
Il film intreccia una trama intricata, centrata su due figure eccentriche, Teddy e Don, interpretati magistralmente da Jesse Plemons e Aidan Delbis.
Questi due personaggi, profondamente immersi nelle teorie del complotto e in un immaginario fantascientifico vivido, compiono un atto estremo: il rapimento e la degradazione di una potente CEO di un’azienda farmaceutica.
La loro convinzione, folle e paradossale, è che la CEO rapita sia, in realtà, un’aliena infiltrata, una minaccia celata dietro una facciata umana, decisa a innescare la distruzione del pianeta Terra.
Questa premessa apparentemente assurda diviene lo spunto per un’esplorazione pungente dei nostri timori, delle nostre ossessioni e della nostra incapacità di comprendere ciò che è diverso da noi.
Il film, quindi, non si limita a presentare una trama fantasiosa, ma indaga la paranoia collettiva, la fede cieca nelle narrazioni complottiste e la tendenza a proiettare le nostre ansie su figure esterne, identificandole come responsabili di mali percepiti.
La rasatura a zero, l’atto brutale che caratterizza il rapimento, diventa un simbolo di spoliazione dell’identità, di tentativo di rivelare la “vera” natura della prigioniera, quella aliena che si cela dietro la sua immagine pubblica.
“Bugonia” è una parabola sulla difficoltà di accettare l’ignoto, sulla nostra innata paura dell’altro e sulla necessità di interrogare le nostre certezze.
Attraverso la lente della fantascienza, il film ci invita a considerare la possibilità che l’universo sia molto più vasto e complesso di quanto possiamo immaginare, e che la nostra presunta centralità sia un’illusione confortante, ma forse pericolosa.
La domanda implicita è: cosa accadrebbe se la persona che consideriamo “aliena” fosse, in realtà, uno specchio che riflette le nostre stesse paure e i nostri stessi difetti?









