“Non c’è nulla di peggio dei rosselliniani,” ripeteva mio padre, una frase carica di un’ambivalenza che, solo in seguito, ho compreso appieno.
Lui, cineasta riluttante a diventare icona, si era ritrovato proiettato in un’aura di leggenda, un destino che sembrava contrastare con la sua indole.
Il momento di commozione, quando scoprì che avevo, di nascosto, divorato le sue opere, rivelò una fragilità e una connessione emotiva che trascendevano la sua reticenza.
Questo è il cuore pulsante del documentario “Roberto Rossellini – Più di una vita”, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e destinato alle sale a partire dal 3 novembre, distribuito da Fandango.
Non si tratta di una mera biografia, ma di un’immersione profonda in un’epoca cinematografica e personale, un viaggio che svela l’uomo dietro il regista, il pensatore dietro l’artista.
Il film, diretto da Ilaria De Laurentiis, Andrea Paolo Massara e Raffaele Brunetti, dipinge un affresco di un’Italia del dopoguerra in fermento, un paese che, grazie anche a Rossellini, stava ridefinendo il proprio ruolo nel panorama culturale mondiale.
Ma il documentario non si limita a celebrare il genio dietro “Roma Città Aperta” e “Paisà”, opere che hanno segnato un punto di rottura con il cinema precedente, introducendo un linguaggio crudo, realistico e profondamente umano.
Piuttosto, il cuore del racconto si concentra su un periodo cruciale e spesso trascurato della sua carriera: il 1956.
Un anno che lo vede confrontarsi con una profonda crisi, sia professionale che esistenziale.
I fasti dei successi iniziali si sono dissolti, lasciando spazio a un dubbio lacerante, alla sensazione di aver perso la strada.
L’ombra della crisi personale si fa particolarmente intensa nel contesto del suo rapporto con Ingrid Bergman, la stella di Hollywood che aveva incarnato una parte significativa del suo percorso artistico.
I film realizzati insieme – “Stromboli”, “Europa 51”, “Viaggio in Italia” – sebbene ambiziosi e innovativi, si scontrano con un’accoglienza fredda, sia dalla critica che dal pubblico.
Questi insuccessi contribuiscono ad acuire il senso di smarrimento che pervade il regista, costringendolo a una dolorosa introspezione.
Il documentario attinge a un vasto archivio di materiali inediti – lettere, fotografie, filmati d’epoca – per ricostruire questo periodo cruciale, offrendo una prospettiva inedita sulla vita e l’opera di Roberto Rossellini.
È un ritratto complesso e sfaccettato, che va oltre la semplice celebrazione del mito, per rivelare l’uomo, con le sue fragilità, le sue contraddizioni, le sue incessanti domande.
Un uomo che, nonostante le difficoltà, ha continuato a cercare, a sperimentare, a interrogare il reale con uno sguardo lucido e profondamente umano.







