La patina della quotidianità, quel velo opaco che si deposita su ogni cosa, rischia di soffocare l’ascolto, di paralizzare l’intuito, di disarmare la fede.
Non è tanto il male a essere temibile, quanto la sua veste di banalità con cui si presenta, un’indifferenza che anestetizza l’anima.
La riflessione di monsignor Delpini non è un mero sfogo, ma un campanello d’allarme: la banalità non è assenza di significato, ma la sua corrosione, la sua riduzione a mera formula, a cliché spento.
Pensiamo all’abito consueto del linguaggio, l’abbondanza di frasi fatte che riempiono il vuoto, che nascondono la mancanza di slancio, di originalità.
Queste parole, logore, ripetute fino all’esaurimento, finiscono per schermare la bellezza del mondo, per offuscare la luce che può illuminare il nostro cammino.
Riuscire a scostarsi da questo tran tran, a praticare il silenzio non è un atto di fuga, ma un esercizio di resistenza, un modo per creare uno spazio in cui la voce interiore possa farsi sentire.
Questa ricerca del silenzio è strettamente legata alla rinuncia ai piccoli desideri, alle gratificazioni immediate che il sistema ci offre costantemente.
L’illusione di una felicità facilmente raggiungibile, quella promessa dai prodotti di consumo, ci allontana dalla vera essenza del nostro essere.
La frenesia del “volere” soffoca la capacità di “essere”, intrappolandoci in un ciclo di insoddisfazione perenne.
La preghiera, in questo contesto, non è una fuga dal mondo, ma un ritorno a se stessi, un modo per ritrovare la direzione, per coltivare la speranza.
L’ipersensibilità, la tendenza a reagire in modo eccessivo agli stimoli esterni, è un’altra manifestazione di questa stessa dinamica.
La suscettibilità, la facilità con cui ci offendiamo, la tendenza a cercare vendetta, sono forme di risentimento che ci imprigionano in un circolo vizioso di rabbia e frustrazione.
La mitezza, la capacità di accogliere l’altro con comprensione e compassione, è l’antidoto a questa spirale di negatività.
Infine, l’omologazione, il conformismo che ci impone di seguire la massa, di adottare i gusti e le abitudini del momento, è un’altra forma di banalità che ci priva della nostra individualità.
La ricerca di un’identità autentica, la volontà di esprimere la nostra unicità, è un atto di ribellione contro questa dittatura dell’uniformità.
Imparare a “fare Natale” non significa partecipare ai rituali convenzionali, ma riscoprire il significato profondo di questo tempo di grazia, di condivisione, di rinnovamento spirituale.
Significa riscoprire la capacità di stupirsi, di meravigliarsi di fronte alla bellezza del creato, di accogliere l’altro con generosità e amore.




