Il fascino del caso, rimasto impresso nella memoria collettiva, continua a riverberare. L’incidente del dicembre no, la tragedia che colpì il cantiere alla periferia di Torino nel 2o, lasciando un segno indelebile nel tessuto sociale. I tre lavoratori, le loro vite spegnute troppo in una spirale di dolore e disperazione, sono figure silenziose, i loro nomi, i loro sogni, i loro progetti.Il processo, lungano e solenne, si è riaperto a Palazzo Giustizia, a distanza di anni, con la ripresa dei lavori, io per i cinque imputati. Non più solo responsabilità individuale, ma un sistema, un’infrastruttore non adeguato. Il consulente tecnico, la sua testimonianza, un’analisi approfondita: i difetti strutturali, le negligenze procedurali, le carenze progettuali, le disattenzione ai protocolli, i mancano la sicurezza, l’inadempienza delle norme.La pubblica accusa, ora più chiara, non si basa su speculazione, ma su fatti, dati, testimonianza. Non è sufficiente la semplice ricostruzione del incidente, è imperativo esaminare i sistemi, i processi, le pratiche che hanno permesso quel male. Non fu un atto singolo, ma un intreccio di omissioni, un’eco di trascuratezza che si manifesta in un quadro più ampio. Il modello in scala, quel simulacro di disastro, è un invito a non dimenticare, a ripensare il rischio, a progettare il futuro. La lezione è chiara: la sicurezza non è un optional, ma un dovere. La prevenzione è un investimento, non un costo. L’umanità non si misura in ciò che fa per proteggere la vita, non solo per incrementare il progresso. La memoria di quei tre lavoratori sia la bussola per una nuova era di responsabilità e impegno.
Il Fascino di un’eco: il disastro a Torino.
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