Il rientro in cella di Gilberto Cavallini, 73 anni, nel carcere di Terni, segna una svolta significativa nel lungo e complesso percorso giudiziario legato alla strage di Bologna.
L’ex membro dei NAR, condannato in via definitiva all’ergastolo per il terribile attentato del 2 agosto 1980, ha visto revocata la semilibertà, un privilegio concesso nel 2017 che gli permetteva di svolgere un’attività lavorativa esterna come contabile.
La decisione del magistrato di sorveglianza di Spoleto, che ha accolto l’istanza della Procura generale di Bologna, si inserisce in un contesto di revisione delle condizioni detentive, innescata dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello che ha quantificato in tre anni il periodo di isolamento da scontare, con l’aggiunta di un anno conseguente all’ultima condanna.
Questa rideterminazione del regime carcerario, percepita come incompatibile con la concessione della semilibertà, ha portato alla sua revoca immediata.
La semilibertà, concessa a Cavallini nel 2017, rappresentava un elemento di attenuazione nel suo regime detentivo, permettendogli di uscire dal carcere ogni mattina alle 8 per rientrare alle 22, dopo aver svolto la sua mansione.
Questa opportunità, che testimoniava una fase di presunta riabilitazione, ora è venuta meno, evidenziando la persistente gravità dei reati commessi e la necessità di mantenere un livello di restrizione più elevato.
L’episodio solleva interrogativi cruciali sul concetto di giustizia, di riabilitazione e sul ruolo della memoria collettiva nei confronti di eventi traumatici come la strage di Bologna.
La revoca della semilibertà non è solo una decisione amministrativa, ma un atto simbolico che riafferma l’importanza di non dimenticare le vittime e di mantenere viva la consapevolezza storica.
La vicenda di Cavallini, infatti, incarna la complessità del sistema giudiziario italiano, con le sue revisioni, i suoi gradi di giudizio e le sue continue valutazioni sull’equilibrio tra diritto alla libertà e necessità di espiazione per crimini efferati.
La vicenda riapre inoltre la discussione sulla possibilità di una “rieducazione” per individui coinvolti in atti terroristici e sulla difficoltà di conciliare questa prospettiva con il dolore e la richiesta di giustizia delle vittime e dei loro familiari.






