La sfida demografica che investe il mondo del lavoro non si risolve unicamente con l’acquisizione di nuovo personale specializzato.
L’attuale carenza di competenze, percepita come una vera e propria emergenza da molti settori, rischia di mascherare una risorsa interna spesso sottoutilizzata: il potenziale inespresso dei dipendenti esistenti.
L’analisi del Barometro Ipl rivela un quadro significativo: un terzo della forza lavoro italiana (35%, con una tendenza all’aumento costante dal 2022) esprime la convinzione di possedere le capacità e le conoscenze per affrontare compiti di complessità superiore a quelli attualmente affidati.
Questa discrepanza tra percezione e mansione solleva interrogativi cruciali sulla gestione delle risorse umane e sull’efficacia dei percorsi di sviluppo professionale all’interno delle aziende.
La lamentela dei datori di lavoro, che denunciano la scarsità di figure specializzate, contrasta con la consapevolezza diffusa tra i lavoratori di poter offrire un contributo maggiore.
Ignorare questa voce significherebbe perpetuare una situazione di inefficienza e frustrazione, limitando sia la produttività aziendale che la crescita professionale dei dipendenti.
L’indagine Ipl evidenzia come questa aspirazione a un ruolo più impegnativo si manifesti in modo particolarmente marcato in settori chiave per l’economia nazionale.
Nel settore pubblico, quasi la metà dei dipendenti (43%) percepisce di poter svolgere mansioni più complesse, un dato che riflette forse la ricchezza di competenze spesso sottosfruttate all’interno della pubblica amministrazione.
Anche nel manifatturiero (42%) e nel settore alberghiero e della ristorazione (40%), le voci che esprimono il desiderio di un ruolo più stimolante e qualificato sono significativamente alte, indicando un potenziale di miglioramento che va al di là della semplice ricerca di nuovi talenti.
È importante sottolineare che, sebbene una parte consistente della forza lavoro (56%) si dichiara perfettamente adatta al proprio ruolo attuale, l’esistenza di una quota così elevata di persone che aspirano a più e sono convinte di poter offrire di più, non può essere trascurata.
Solo una minoranza (9%) percepisce di essere meno qualificata rispetto alle esigenze del proprio lavoro, suggerendo che la maggior parte dei dipendenti possiede un margine di crescita e sviluppo che andrebbe incentivato.
La soluzione, pertanto, non risiede solamente nell’ingente investimento nella ricerca di figure esterne, bensì in una profonda revisione delle politiche di gestione del capitale umano.
Le aziende dovrebbero implementare programmi di formazione personalizzati, percorsi di mentorship, rotazioni di ruolo e opportunità di crescita professionale che permettano ai dipendenti di valorizzare le proprie competenze e di contribuire in modo più significativo al successo dell’organizzazione.
Solo attraverso un approccio olistico e lungimirante, che combini l’acquisizione di nuove risorse con la valorizzazione di quelle esistenti, sarà possibile affrontare la sfida demografica e costruire un futuro del lavoro più equo, efficiente e sostenibile.
L’investimento in capitale umano interno non è un costo, ma una leva strategica per la competitività e l’innovazione.







