Natale in carcere: Gambelli, speranza e dignità umana.

L’ambiente carcerario, luogo intrinsecamente segnato dalla privazione di libertà e spesso intriso di dolore e disillusione, può subire una profonda metamorfosi.
Questa trasformazione non deriva da riforme strutturali o politiche punitive, ma da una rivoluzione interiore, da una riscoperta e una rivendicazione della dignità umana, intrinseca a ogni individuo, riflesso dell’immagine divina.

Questo è il cuore del messaggio che l’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli, ha offerto durante la celebrazione del Natale nel carcere di Sollicciano.

La vera liberazione, quella che trascende le mura e le catene, non è un atto di ribellione o di fuga, ma un coraggioso atto di servizio reciproco, permeato dall’amore.

Richiede una capacità di sguardo, di empatia, che ci permetta di vedere l’umanità nell’altro, anche quando celata sotto strati di dolore e rimpianto.
Quando, individualmente e collettivamente, impariamo a onorare e ad accogliere la nostra stessa dignità e quella altrui, specularmente a come Gesù ci rispetta e ci ama incondizionatamente, ci apriamo alla possibilità di compiere azioni di straordinaria portata, di incarnare nel mondo segni tangibili di una speranza che non delude, una speranza che oggi, più che mai, il mondo anela.
L’arcivescovo ha saputo evocare l’essenza del Natale attraverso i versi delicati e penetranti di Trilussa, riproponendo la poesia “Er presepio”.

Il presepio, più che un mero allestimento decorativo, è un invito a contemplare l’amore divino, a permettere a tale amore di permeare le nostre vite, per poter celebrare il Natale con autenticità, al di là del consumismo e della superficialità.

Gambelli ha inoltre condiviso una potente preghiera, ricevuta da un detenuto di un istituto penale al di fuori di Firenze, un’invocazione che riecheggia i salmi biblici e che ricorda l’insegnamento costante di Papa Francesco: la misericordia divina è infinita, un oceano di perdono che non si esaurisce mai.
Il comandamento di perdonare fino a settanta volte sette non è un mero esercizio di tolleranza, ma un’eco dell’amore incondizionato di Dio, un amore che ci precede e ci sostiene.

Un brano significativo della Messa per il Giubileo dei detenuti di Papa Leone ha sottolineato la necessità di un coraggio particolare, un coraggio che ci preservi dalla morsa paralizzante della rassegnazione, dalla letargia della pigrizia, dall’indifferenza anestetizzante, dall’orgoglio soffocante e dall’egoismo corrosivo.

È un coraggio che si nutre della speranza, della fede e della carità, un coraggio che ci spinge a tendere la mano all’altro, a offrire un sorriso, una parola di conforto, un gesto di solidarietà.

Questo coraggio non è assenza di paura, ma la capacità di agire nonostante la paura, di scegliere la luce anche quando l’oscurità sembra invincibile.
È, in definitiva, il coraggio di essere umani, pienamente umani, nel luogo più difficile dell’umanità.

- pubblicità -
- Pubblicità -
- pubblicità -
Sitemap