sabato, 14 Giugno 2025
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San Sperate: il ’68 che scolpì una comunità.

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Il ’68, in Sardegna, si è manifestato in una forma inattesa, lontana dai vivaci scontri che animavano le aule universitarie di Cagliari e Sassari. Si è insinuato, silenzioso ma persistente, nel cuore di San Sperate, un piccolo borgo immerso nel paesaggio a pochi chilometri dal capoluogo. Lì, le proteste e le istanze di cambiamento si sono tradotte non in manifesti o slogan, ma in un’esplosione di colori e figure che hanno radicalmente trasformato l’identità del paese.Questo fenomeno, questa singolare metamorfosi, è inestricabilmente legato alla figura di Pinuccio Sciola, artista sardo scomparso nel 2009. Sciola, con la sua visione rivoluzionaria, ha saputo attingere alla linfa vitale della tradizione popolare sarda, reinterpretandola attraverso un linguaggio artistico innovativo e profondamente partecipativo. Non si è limitato a creare opere d’arte, ma ha generato un processo creativo collettivo, un vero e proprio laboratorio culturale che ha coinvolto l’intera comunità.Sciola, attraverso l’uso di materiali semplici e genuini, come la pietra locale, il legno di olivo e la terracotta, ha dato vita a sculture monumentali che sembravano emergere direttamente dal terreno, integrandosi perfettamente con il contesto naturale e antropico. Queste opere, inizialmente espressione del suo personale sentire, hanno gradualmente ispirato i compaesani a imitarlo, a sperimentare, a esprimere la propria creatività.Il processo di “scultura popolare” si è diffuso come un’epidemia positiva, coinvolgendo non solo gli abitanti di San Sperate, ma anche artisti e visitatori provenienti da altre regioni italiane e da paesi lontani. San Sperate si è così trasformata in un “Paese Museo”, un luogo unico al mondo, dove l’arte non è un bene elitario riservato a pochi, ma un elemento essenziale della vita quotidiana, un linguaggio condiviso che rafforza il senso di appartenenza e di identità.Il ’68 di San Sperate non è quindi una storia di barricate e di scontri violenti, ma una narrazione di resilienza, di partecipazione democratica e di profonda trasformazione sociale. È la testimonianza di come l’arte, quando si libera dalle convenzioni e si apre alla collaborazione, possa diventare uno strumento potente per costruire comunità più giuste, più belle e più umane. È un inno alla creatività popolare, alla capacità di trasformare il dolore in bellezza, l’abbandono in speranza. Il suo lascito va oltre le opere in pietra e terracotta; è un metodo, un modo di concepire il rapporto tra arte, comunità e territorio, un modello di sviluppo sostenibile che guarda al futuro con ottimismo e fiducia.

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