L’eco di un nome, Pier Paolo Pasolini, risuona ancora con potenza, intrecciandosi indissolubilmente al luogo del suo tragico epilogo: Ostia.
 Un toponimo che, al di là della sua collocazione geografica, evoca un’altra accezione, quella di “ostia” nel suo significato latino di vittima sacrificale.
 Questo doppio strato di significato permea l’opera di Giuseppe Zigaina, che in “Hostia – Trilogia della morte” (Marsilio, nuova edizione con prefazione di Cesare De Michelis) dedica al suo amico un’indagine complessa e disturbante.
 L’opera, dedicata a Livio Garzanti, si configura come un mosaico di riflessioni, raccogliendo scritti precedenti e offrendo una prospettiva inedita sulla scomparsa di Pasolini, presentata domani al Teatro Miela di Trieste nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della sua morte.
L’evento, animato dall’intervento di Elvio Guagnini, critico letterario e professore emerito, e dello scrittore e medico legale Ilario Quirino, non si limita alla presentazione del volume, ma si propone come un vero e proprio omaggio, arricchito dalla messa in scena di due nuove opere teatrali, frutto dell’ispirazione che il legame tra Zigaina e Pasolini continua a generare in giovani autori e drammaturghi.
L’analisi di Zigaina, frutto di anni di studio meticoloso, si discosta dalle narrazioni convenzionali, sollevando un interrogativo scomodo e politicamente sensibile: Pasolini, l’intellettuale provocatorio e ferocemente critico nei confronti del potere, avrebbe consapevolmente orchestrato la propria morte? Non come un atto di suicidio nel senso stretto del termine, ma come una performance artistica estrema, un rituale premeditato le cui tracce sarebbero disseminate nei suoi scritti, come presagi di un destino ineluttabile.
L’ipotesi è che Pasolini, fin dagli esordi della sua carriera, avesse disseminato nei suoi testi indizi, descrizioni, frammenti di un evento che culminava nella sua morte.
 Un linguaggio che trascendeva la parola scritta o parlata, configurandosi come un’azione silenziosa, una danza macabra in cui l’autore si sarebbe assunto il ruolo di regista, anticipando, attraverso la sua opera, il momento del suo epilogo.
 Questa interpretazione, sebbene controversa, suggerisce una visione profonda e inquietante della poetica pasoliniana: un’ossessione per la morte come forma di espressione, un tentativo di esorcizzare il destino attraverso l’arte, un’estrema ribellione contro l’omologazione e la violenza che permeavano la società italiana degli anni Settanta.
 L’opera di Zigaina ci invita a guardare oltre la superficie degli eventi, a decifrare i segni nascosti, a confrontarci con la possibilità che la morte di Pasolini fosse, in realtà, un atto di creazione artistica, un’opera d’arte compiuta nel suo tragico epilogo.



                                    



