L’abisso del palcoscenico, all’inizio, si presentava come una sfida insidiosa. Un territorio inesplorato per chi, come me, non aveva mai respirato l’aria rarefatta del teatro, men che meno a un livello di tale complessità e risonanza emotiva. La necessità di assimilare il materiale, di interiorizzare ogni sfumatura del personaggio, si trasformò in un percorso di studio intenso, quasi ossessivo. Le melodie, inizialmente, erano già familiari, incise nella memoria come fotografie sbiadite di un passato lontano. Ma la vera comprensione, il vero significato, si rivelarono solo attraverso la guida paziente e illuminante di Valter Malosti, un mentore che ha saputo decifrare le pieghe più profonde dell’opera.Inaspettatamente, ho scoperto che Lazarus, l’omaggio a David Bowie e Enda Walsh, era molto più di un mero spettacolo teatrale. Era uno specchio, una lente d’ingrandimento puntata sulle mie fragilità, sui miei dubbi, sulle mie paure più recondite. La figura di Newton, il migrante interstellare esiliato sulla Terra, incarnava una condizione universale di sradicamento, di perdita, di ricerca di un’identità smarrita. Un’esperienza che, pur nella sua apparente lontananza dalla mia realtà, ha risuonato con una forza inattesa.Questo viaggio artistico, che culmina ora nell’ultima, emozionante tappa della tournée, ha rappresentato una profonda trasformazione personale. Lazarus non è solo un regalo d’addio del Duca Bianco al mondo, una celebrazione della sua eredità musicale e creativa, ma anche un’occasione per riflettere sulla condizione umana, sulla resilienza, sulla capacità di trovare speranza anche nel buio più profondo. L’impegno artistico si fonde con una ricerca interiore, arricchita dalla presenza di talenti straordinari: la voce intensa di Casadilego, l’energia dei perfomer, la maestria degli otto musicisti che accompagnano questa narrazione toccante. Al Teatro Argentina di Roma, dal 5 al 15 giugno, Lazarus si rivela un’esperienza indimenticabile, un atto d’amore verso l’arte e verso il pubblico.