L’auspicio di rivedere la produzione di bresaola, e potenzialmente anche di mortadella, utilizzando tagli di carne considerati “di seconda scelta” per l’esportazione negli Stati Uniti, sollevato dal Ministro Lollobrigida, innesca un dibattito complesso e articolato, radicato in una storia di restrizioni commerciali e speranze di riconquista di un mercato strategico. Questa proposta, lungi dall’essere una novità improvvisa, affonda le sue radici nella vicenda della “mucca pazza” del 2001, che ha imposto un embargo statunitense alle importazioni di carne italiana, bloccando l’esportazione della bresaola IGP da ormai 24 anni.L’attuale fase negoziale, tuttavia, sembra promettente. Un piano di controlli rigorosi, esteso a ogni anello della filiera bovina – dalla macellazione alla trasformazione – ideato dal Ministero della Salute, ha raggiunto una fase avanzata e potrebbe costituire la chiave per sbloccare le trattative con Washington. Come sottolinea Davide Calderone, direttore generale di Assica, l’associazione che rappresenta gli industriali delle carni e dei salumi, questa prospettiva rappresenta un’opportunità cruciale per il “made in Italy”.Tuttavia, l’implementazione pratica di questa soluzione presenta sfide significative. L’ostacolo principale risiede nella mancanza di macelli italiani disposti a investire nell’adeguamento degli impianti per soddisfare i severi standard di sicurezza e qualità richiesti dalle autorità statunitensi. Nonostante l’attrattiva di un mercato di nicchia, caratterizzato da un alto potenziale di crescita e che potrebbe fungere da “cavallo di Troia” per il ritorno dei prodotti italiani sugli scaffali americani, l’incertezza sugli investimenti necessari frena l’iniziativa.La proposta si inserisce in un contesto globale caratterizzato da un’impennata dei prezzi delle carni bovine e da una crescente scarsità di materie prime. In questo scenario, l’utilizzo di tagli alternativi potrebbe rappresentare un gesto di distensione nelle trattative commerciali, estendibile anche alla mortadella, ampliando ulteriormente le opportunità di esportazione.È fondamentale sottolineare che questa iniziativa non implica una delocalizzazione degli stabilimenti produttivi all’estero. L’impegno rimane saldamente ancorato al territorio italiano, preservando la forza lavoro e le competenze artigianali che contraddistinguono la produzione alimentare italiana. L’obiettivo primario è mantenere la produzione e la trasformazione all’interno del Paese, valorizzando il know-how italiano e garantendo la tracciabilità dei prodotti, elementi imprescindibili per il successo e la reputazione del “made in Italy” sui mercati internazionali. La riapertura del mercato statunitense non è solo un’opportunità economica, ma anche un veicolo per la promozione della cultura e della tradizione alimentare italiana nel mondo.