Un’ombra si proietta sulle acque dell’Adriatico e non solo: il fermo pesca, esteso quest’anno a un’area geografica inedita che abbraccia l’intera costa adriatica da Trieste a Bari, e poi esteso a tutto il territorio nazionale, segna una stagione di profonda riflessione per il settore ittico italiano. Questa misura, necessaria per favorire il recupero delle risorse marine impoverite, si inserisce in un contesto più ampio di crisi strutturale che affligge la pesca italiana.L’interruzione delle attività, che avrà inizio il 16 agosto e si concluderà il 29 settembre, con un’ulteriore fase a livello nazionale tra ottobre e novembre, solleva interrogativi cruciali sulla sostenibilità del modello attuale. Sebbene il consumo di pesce fresco non subirà una drastica interruzione grazie alla piccola pesca costiera, alle attività di dragaggio, all’acquacoltura e alle aree non interessate dal fermo, la situazione evidenzia una dipendenza sempre più marcata dalle importazioni.Negli ultimi decenni, la produzione interna è crollata, lasciando spazio a un’ondata di pesce straniero che, lo scorso anno, ha superato gli 840 milioni di chilogrammi, contro una produzione nazionale di circa 130 milioni. Questa drammatica inversione di tendenza, aggravata da politiche europee che penalizzano il settore, rischia di compromettere l’identità e la tradizione gastronomica italiana.La trasparenza sull’origine del pesce, sebbene obbligatoria, è spesso insufficiente. La dicitura “Italia” è sostituita da codici di zone di cattura (FAO 37 per il Mediterraneo), rendendo difficile per i consumatori fare scelte consapevoli. Anche nei ristoranti, l’assenza di etichette rende opaca la provenienza del prodotto. L’etichettatura obbligatoria si applica unicamente ai prodotti di acquacoltura, lasciando un vuoto informativo per il pesce di cattura.Il fermo pesca 2024 si presenta come un campanello d’allarme in un momento di profonda incertezza. La proposta di bilancio della Commissione Europea, che prevede tagli drastici ai fondi destinati al settore ittico, riducendoli da 6,1 a poco più di 2 miliardi di euro, rappresenta un ulteriore colpo per una flotta italiana già provata.Le scelte strategiche dell’Unione Europea hanno già portato alla perdita di circa un terzo delle imbarcazioni e di 18.000 posti di lavoro, minando la vitalità di una filiera che rappresenta un patrimonio culturale ed economico di inestimabile valore. La necessità di una pesca sostenibile è innegabile, ma non può prescindere da un sostegno concreto al settore e da politiche che favoriscano la produzione locale e la trasparenza verso i consumatori, garantendo un futuro alle nostre tradizioni marinare e ai lavoratori che le custodiscono.