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venerdì 5 Dicembre 2025

COP: il sistema è truccato, la svolta passa dal cibo

La spirale di inconcludenza che caratterizza le Conferenze delle Parti (COP) non è un mero difetto procedurale, ma la tragica conseguenza di un’architettura decisionale intrinsecamente compromessa.

I dibattiti, pur affollati di proclami e di promesse, si rivelano sterili perché perpetuano un quadro concettuale inalterato, un sistema di presupposti che legittima e protegge le dinamiche di potere responsabili della crisi globale.

Nonostante l’evidenza scientifica inequivocabile, generata da anni di ricerca condotta da climatologi, agronomi e scienziati sociali, la causa principale del cambiamento climatico – l’immissione massiccia di gas serra derivante da attività antropiche – viene elusa o minimizzata.
Il nodo cruciale, quello del modello economico che alimenta questa spaventosa deriva distruttiva, rimane virtualmente intoccabile.
Si tratta di un sistema imperniato sul consumo illimitato, sull’esaurimento spietato delle risorse naturali e, in ultima analisi, sulla massimizzazione del profitto a dispetto di ogni altra considerazione.

Un sistema che, per sua stessa natura, genera profonde disuguaglianze sociali ed economiche, aggravando le fragilità esistenti.

Come sottolinea Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia, il presunto fallimento della COP30 di Belém non è un evento isolato, ma la manifestazione di un problema strutturale.
L’innovazione tecnologica, pur auspicabile, non costituisce una panacea.
La soluzione risiede nella capacità dell’umanità di abbracciare modelli di sviluppo sostenibili, fondati su una nuova etica della responsabilità verso il pianeta e verso le generazioni future.
Non si tratta di rinunciare al benessere, ma di ridefinirlo in termini più ampi e autentici, ponendo al centro la salute – la nostra, quella degli ecosistemi, quella del pianeta nel suo complesso.
Serena Milano, direttrice di Slow Food Italia, evidenzia come i sistemi alimentari rappresentino un paradigma emblematico di questa deriva insostenibile.

La produzione di cibo a basso costo, di qualità scadente, è intrinsecamente legata a un ciclo di sfruttamento delle risorse, di spreco di energia e di impatto ambientale devastante.
La deforestazione dell’Amazzonia, ad esempio, per far spazio a monocolture di soia e mais geneticamente modificati destinati all’alimentazione intensiva del bestiame, è una ferita aperta nel cuore del pianeta.

Il cibo, che dovrebbe nutrire e curare, oggi spesso inquina e ammala, vittima di una logica industriale e di una ricerca spasmodica del profitto.

La drammaticità della situazione si aggrava ulteriormente quando si considera la presenza, nei forum internazionali dedicati alla lotta al cambiamento climatico, di un esercito di lobbisti provenienti dai settori agricoli, zootecnici e dell’energia fossile.

La coalizione Kick Big Polluters Out (Kbpo), che riunisce oltre 450 organizzazioni ambientaliste, ha documentato a Belém una concentrazione allarmante di queste figure, superando di quasi il doppio il numero dei delegati ufficiali.
È imperativo, pertanto, un cambio di rotta radicale.

Il punto di partenza deve essere il cibo, ciò che portiamo in tavola, scegliendo alimenti prodotti nel rispetto dell’ambiente, della biodiversità e del benessere animale.
Occorre ridurre il consumo, privilegiando la qualità sulla quantità, sostenendo i produttori locali e le filiere corte, promuovendo un’agricoltura rigenerativa capace di ripristinare la fertilità del suolo e di sequestrare il carbonio atmosferico.
La trasformazione inizia con una scelta consapevole, un atto di responsabilità individuale che può innescare un cambiamento collettivo.

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